Le parole sono armi di distrazione di massa. E così, in questi giorni convulsi nei quali si sono accavallate le notizie sull’arresto dell’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola e sul passaggio in giudicato della condanna di Marcello Dell’Utri (tanto l’uno quanto l’altro sono ex parlamentari vicini a Silvio Berlusconi) abbiamo dovuto rincorrere i fatti.
Una girandola di voci, informazioni, puntualizzazioni, smentite, appelli, sorprese, annunci, ricorsi nei quali perdere la bussola è facile. Facilissimo.
C’è un punto di riflessione che, con voi, vorrei analizzare, sapendo benissimo che tanti altri sono quelli che, in queste ore, meritano e meriteranno di essere affrontati.
I trattini che uniscono i punti delle storie di Marcello dell’Utri e Amedeo Matacena sono (attualmente) due:
1) entrambi sono stati condannati con sentenza definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. L’uno a sette anni con sentenza passata in giudicato il 10 maggio di quest’anno; l’altro a 5 anni e 4 mesi il 6 giugno 2013;
2) Matacena afferma che non ci sarebbe stata alcuna ragione di transitare in Libano, per la precisione a Beirut, capitale di fasti e nefasti. A Beirut, ed ecco il secondo trattino che unisce le storie, si trova già Marcello Dell’Utri, piantonato in un ospedale privato in attesa dell’estradizione (sempre che avvenga; il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha già presentato ufficialmente richiesta).
Il Capo della Procura della Repubblica di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho, il sostituto Giuseppe Lombardo e Francesco Curcio (sostituto procuratore nazionale antimafia) sono convinti che gli indagati nell’operazione che ha condotto, tra gli altri, all’arresto di Scajola, tramassero con una rete internazionale per garantire il passaggio da Dubai (dove attualmente si trova) a Beirut di Matacena.
Ma cosa dice Matacena al collega Giuseppe Baldessarro che il 9 maggio lo intervista per Repubblica? Ecco: «Non avevo nessuna intenzione di andare a Beirut, un'idea del genere non mi ha neppure sfiorato. Sarebbe stata una follia. Scusi, io mi trovo in un Paese in cui non esiste l'estradizione, perché avrei dovuto andare in Libano dove invece esistono accordi bilaterali con l'Italia? Tra l'altro anche volendo mi è stato ritirato il passaporto e non posso muovermi da Dubai. Anche volendo, per me è impossibile spostarmi da qua…comunque da qua non mi sarei mosso. È semplicemente illogico anche solo ipotizzarlo».
Già, all’apparenza folle anche solo ipotizzarlo ma la Procura la pensa diversamente e perché?
Semplice, perché, scrivono chiaro e tondo nella richiesta per l’applicazioni delle misure cautelari, spedita al Gip Olga Tarzia che l’ha firmata il 24 aprile, «…a rendere attuabile il pianificato spostamento del Matacena dall’Emirato di Dubai alla Repubblica del Libano, individuato dallo Scajola per la possibilità di sfruttare le proprie relazioni personali (tra le quali quella con Speziali Vincenzo) al fine di far riconoscere il diritto di “asilo politico” a favore del condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, Matacena Amedeo».
E’ dunque vero che gli Emirati Arabi non riconoscono l’estradizione per concorso esterno in associazione mafiosa (come praticamente, però, accade in tutto il mondo, visto che la legislazione antimafia è, purtroppo, prerogativa pressoché esclusiva del nostro Paese) ma è altrettanto vero che lì sarebbe difficilissimo farsi riconoscere l’asilo politico, cosa alla quale, secondo la Procura di Reggio Calabria, Matacena puntava. E cosa alla quale gli Emirati Arabi non sono abituati, privi come sono di una serie di relazioni di “diversa natura”, che da sempre appartengono invece ad uno dei crocevia mondiali dei traffici di ogni sorta, come il Libano.
Punto e a capo.
E ieri in un’intervista esclusiva, sempre di Repubblica, del collega Francesco Viviano, cosa dice Dell’Utri? Ecco qui: «Io sono un prigioniero politico perché quella di venerdì è stata una “sentenza politica”, una sentenza già scritta di un processo che mi ha perseguitato per oltre 20 anni soltanto perché ho fatto assumere Vittorio Mangano come stalliere nella villa di Arcore del Presidente Silvio Berlusconi. Una persona per me davvero speciale anche se aveva dei precedenti penali: per me Mangano era un amico e basta…Sono venuto qui senza nascondermi e da quando sono a Beirut ho sempre usato il mio cellulare che probabilmente poteva essere intercettato. Io sono partito con il mio nome e cognome, non ho usato altri mezzi».
Ecco che Dell’Utri «prigioniero politico»” – come titola Repubblica – potrebbe sentirsi autorizzato a cercare e ottenere in Libano (dove è di casa lui come tanti altri politici di ogni colore e di ogni parte del mondo, imprenditori, finanzieri, faccendieri, massoni deviati, mafie italiane e internazionali, terroristi neri e rossi) l’asilo politico per chi si sente inseguito, perseguitato e massacrato dalla Giustizia italiana. Un asilo, richiesto a maggior ragione se gli eventuali ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo dovessero fallire.
Così come l’asilo politico, per le stesse ragioni (ragione più, ragione meno) avrebbe potuto essere (come del resto sono più che convinti i pm della Procura di Reggio Calabria) l’obiettivo vero di Matacena in quel di Beirut.
Ma il Libano è (sarebbe) pronto ad assecondare questi desiderata che oggi sono o potrebbero essere di Matacena e Dell’Utri e domani di Tizio, Caio o Sempronio? La risposta la si trova forse, oltre che nelle potentissime relazioni internazionali che i politici di qualunque colore hanno. Per Matacena, Scajola & C, ne sono convinti nella Procura di Reggio Calabria che, però, ha un’esigenza: deve provarlo in un’aula di Tribunale fino a eventuale passaggio in giudicato della sentenza.
r.galullo@ilsole24ore.com