Il 16 dicembre 2013 il capo della Procura di Milano Edmondo Bruti Liberati, il procuratore aggiunto Ilda Boccassini e il pm Alessandra Dolci, che cura il vitale settore delle misure di prevenzione, sono stati auditi dalla Commissione parlamentare antimafia in trasferta in quel che resta della capitale morale del Bel Paese.
Solo ora ho modo – in una congerie di episodi che si accavallano e che meritano tutti di essere affrontati – di analizzare con voi alcun passaggi delle 17 pagine di relazione firmata e consegnata da Bruti Liberati e Boccassini alla Commissione.
A pagina 4, nel paragrafo 6, i due magistrati descrivono la “Ndrangheta in Lombardia”.
Le loro riflessioni appaiono pacate e sorprendenti. Piacevolmente sorprendenti, intendo dire, perché alcuni eccessi autoelogiativi, colti nel passato, mi sembrano messi alle spalle e una lettura più aderente alla realtà si fa avanti.
Sia ben chiaro. Sono mie sensazioni, fallibili per definizione.
Ho intercalato, nei passaggi della bella relazione che ho ritenuto degni di maggiore attenzione, una parola secca ma poi, su alcune parti, ho fatto qualche riflessione in più.
L’EVOLUZIONE
Ebbene, è lo stesso “attacco” della relazione (come si direbbe in gergo giornalistico, che chiamerò incipit affinché nessuno equivochi) che mi ha sorpreso. «In primo luogo può dirsi ormai attestato che la ‘ndrangheta non è costituita da un insieme di ‘ndrine tra loro scollegate e scoordinate ma nemmeno da una “macro organizzazione”, cioè con un unico organismo dotato di unità di scopo». Sottoscrivibile.
«Tale visione ne sopravvaluterebbe la coesione e la coerenza interna – prosegue la relazione – si tratta piuttosto di un sistema di regole che crea vincoli tra gli aderenti e opportunità d’azione per gli stessi, di una configurazione reticolare, strumentale al perseguimento di differenti interessi individuali, con forme di forte solidarietà collettività e di stringente cooperazione». Condivisibile.
«Tra gli aderenti vi sono spesso forme di competizione, che però non portano al dissolversi dell’organizzazione – si legge ancora nella relazione – sia per la presenza di forme di cooperazione sia perché gli scopi sono spesso interdipendenti e tutti i partecipi hanno interesse a che l’organizzazione sopravviva, il che costituisce la pre-condizione perché i traffici illeciti possano continuare a prosperare». Storico.
L’ANARCHIA ORGANIZZATA
«Si è in proposito parlato, con espressione sintetica – si può ancora leggere nella relazione – di “anarchia organizzata”, di organizzazione unitaria su base federale, costituita da più “locali” secondo un modello di organizzazione-rete, non di carattere gerarchico verticistico dove il rimando alla ‘ndrangheta e alle sue tradizioni serve, all’interno, per garantire lealtà tra i membri e adesione agli scopi e, all’esterno, per sorreggere l’efficacia del metodo intimidatorio». Sempreverde.
«Ovviamente tale flessibilità garantisce maggiore capacità di diffusione in territori non tradizionali – continua la relazione – il che è tipico della ‘ndrangheta, dotata di moduli organizzativi più adattabili, di una struttura meno centralizzata e verticistica». Distensivo.
«Tali osservazioni conducono ad affermare che le singole “famiglie” non possono essere viste come monadi separate e autonome – si leggere sempre nella relazione – ma come fenomeno criminale unitario». Infinito.
IL CAPITALE SOCIALE
Dopo questa lunga e condivisibile disamina (sugli ultimi passaggi colgo qualche conciliazione concettuale tra posizioni e qualche cedimento interpretativo rispetto al recente passato ma di sicuro sbaglio) la relazione firmata da Bruti Liberati e Boccassini entra in quello che a mio modestissimo avviso è il volto della mafia 2.0. Quello che va “sfigurato”, attaccato, distrutto, quello di cui – secondo il giudizio di questo umile e umido blog – fanno parte quei profili che non rappresentano più un qualcosa di “avulso” rispetto alla mafia, ma ne costituiscono il collante, il cemento, il motore, l’unità di intenti.
«L’analisi delle relazioni esterne del sodalizio mafioso – scrivono il procuratore capo e l’aggiunto – ha condotto all’elaborazione del concetto di “capitale sociale” mafioso, quel bagaglio di relazioni che il mafioso intrattiene con il mondo politico, imprenditoriale, giudiziario, delle libere professioni». Timido.timi
Spendo qualche parola in più, rispetto a quel semplice aggettivo, “do”.
Il “capitale sociale” della mafie è, a mio giudizio, molto ma molto più ampio e abbraccia servizi segreti, finanza, Chiesa, massoneria e mondo dell’informazione. Ma il “capitale sociale” – mi spingo oltre, visto che l’analisi giornalistica con la conseguente libertà di giudizio non coincidono spesso con le “istantanee” giudiziarie, con la clessidra dei processi e con i tempi della Giustizia – è destinato ad essere “concretamente” esso stesso mafia: non più un concorso esterno ma un concorso interno, intestino, intraneo allo stesso sistema criminale soavemente tratteggiato (senza successo e sbocco processuale con piena onestà intellettuale) quasi 20 anni fa dal pm palermitano Roberto Scarpinato.
«Il precipitato giuridico del tema delle relazioni esterne è quello del concorso esterno e di condotte in qualche modo “favoreggiatrici” e di contiguità – si legge ancora nella relazione – spesso affrontate dalla Dda di Milano con lo strumento delle misure di prevenzione che hanno consentito di accertare il collegamento della ‘ndrangheta con la cosiddetta società civile…La ‘ndrangheta è una realtà polivalente: organizzazione criminale violenta, impresa economica, apparato simbolico e struttura di potere in rapporto con il mondo istituzionale e con la società civile. Quest’ultimo aspetto ne costituisce uno dei tratti distintivi: l’associazione mafiosa si distingue dalla associazione per delinquere semplice, per la capacità di intrattenere rapporti con il mondo istituzionale, condizionandolo ai propri fini, intessendo alleanze.
Il dato organizzativo e il profilo del capitale sociale sono due temi connessi: descrivere la ‘ndrangheta come un universo frammentato tra molte famiglie, in cui l’unico legame è quello familiare, trascurando invece il dato organizzativo unitario, significa privilegiare un aspetto culturale, quasi es
clusivamente regionale della ‘ndrangheta, inidoneo a valorizzare i rapporti tra la ‘ndrangheta e alcuni esponenti della società civile». Si può fare di più.
Mi spiego meglio anche in questo caso. La Giustizia deve restare ancorata alle prove e alle evidenze nonché alle risposte processuali fino a passaggio in giudicato, che cristallizzano una realtà e dunque, come sempre, con il massimo rispetto scrivo che l’analisi giornalistica degna di questo nome può e deve andare oltre. Ecco, dunque, spiegato quel “si può fare di più”. Non è un mancato ringraziamento ma è al, contrario un sentito grazie ma, al contempo, una spinta ad “attaccare”, tirando fili investigativi magari sopiti o involontariamente tralasciati, quei sistemi criminali, quella mafia 2.0 che, a giudizio sindacabile di chi scrive, non è in “rapporti” ma è “sinergico” alle cosche e ai clan, vere e proprie agenzie di servizio.
A meno che al termine “rapporto” non si voglia attribuire il significato matematico che, fra due grandezze, corrisponde al risultato della loro divisione esatta, vale a dire senza resto. Che poi, guarda caso, coincide con la “sinergia”, che nulla è se non l’integrazione di più elementi che perseguono un fine comune, allo scopo di ottenere un effetto complessivo più soddisfacente di quello che otterrebbero separatamente.
Da una parte dunque, la mafia “relazionale”, dall’altra la mafia delle “relazioni”, chiuse in una sola definizione: mafia 2.0, già forse vecchia per il mondo che verrà.
Seguitemi anche domani. Metterò in linea altre analisi di questa interessantissima relazione dei vertici della Procura di Milano
1 – to be continued