Amati lettori di questo umile e umido blog, da ieri sto scrivendo dell’operazione Araba Fenice, coordinata dalla Procura di Reggio Calabria, nel corso della quale sono state arrestate 47 persone dal Gruppo investigativo criminalità organizzata della Gdf di Reggio Calabria con l’ausilio di uomini dello Scico di Roma. Sequestrate 14 società e beni per un valore complessivo di circa 90 milioni e denunciate a piede libero altre 17 persone.
Con una suggestiva immagine, il comunicato stampa firmato dal capo della Procura di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho, parla di «gruppo criminale misto», composto dalla compartecipazione economica delle cosche reggine Ficara-Latella, Rosmini, Condello, Fontana-Saraceno, Audino, Serraino (dedito, in particolare, alla realizzazione e gestione di opere di edilizia privata) e responsabile dei reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, intestazione fittizia di beni, abusivo esercizio dell’attività finanziaria, utilizzo ed emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, favoreggiamento, peculato, corruzione, illecita concorrenza ed estorsione, tutti aggravati dalle modalità mafiose.
Sapete che di quest’operazione sto analizzando la parte che anima speranza, vale a dire quella che punta dritta al cuore della ‘ndrangheta 2.0. Da questo punto di vista abbiamo letto ieri della figura “cerniera” di un avvocato reggino, appartenente a una famiglia che ha sfornato anche altri professionisti e giudici (alcuni dei quali nei guai con la Giustizia).
Oggi vorrei addentrarmi di più nel “sistema” messo a nudo prima dalle indagini del pm Giuseppe Lombardo e poi condiviso dal Gip Domenico Santoro.
ANTICIPAZIONE VITALE
Con una sorta di “anticipazione” storica (proprio ieri scrivevo che quest’operazione tenta coraggiosamente di allineare la verità processuale a quella storica, anche se le distanze ancora restano) il Gip Santoro – seguendo passo passo la riformulazione di Lombardo – disegna l’evoluzione storica della ‘ndrangheta cittadina (e io aggiungerei: e non solo).
E parte – sconvolgendo i pronostici – dal procedimento Meta. Sorprendente perché se è vero che una prima tranche del procedimento, in sede di giudizio abbreviato, si è conclusa con l’emissione di sentenza di condanna (e, dunque, con una prima convalida dei postulati accusatori), che è stata confermata dalla Corte d’Appello, è altresì vero l’altra pende in dibattimento davanti al Tribunale collegiale. Come a dire: quella “istantanea” scattata dalle indagini (anch’esse portate avanti dal pm Lombardo) è vera e reale anche in attesa della seconda tranche. E cosa fotografa nell’album dell’evoluzione ’ndranghetistica quell’indagine?
Semplice: che alla testa della piovra cittadina (e io raggiungo: e non solo) ci sono le famiglie che tra l’85 e il ’91 si sono massacrate.
1) la famiglia De Stefano, attraverso il figlio di Paolo, Giuseppe, quale vertice operativo e riferimento tanto verso gli associati, e i contigui, che verso le realtà imprenditoriali e commerciali che si interfacciano con la penetrante azione estorsiva sistematicamente portata a compimento;
2) la famiglia Condello, attraverso il “supremo”, braccio destro di Paolo De Stefano prima scissionista e vertice indiscusso del cartello contrapposto a quello destefaniano poi, nel corso della seconda guerra di mafia;
3) la famiglia di Pasquale Libri, erede del ruolo di garante riservato al termine del conflitto al fratello Domenico, quale componente necessario a garantire il legame del nuovo corso della ‘ndrangheta con le regole condivise scritte per mettere fine ad una guerra sempre più simile ad un processo di autodistruzione inevitabile della stessa mafia calabrese.
La ‘ndrangheta cittadina fotografata dall’indagine Meta, dunque, si palesa come un’organizzazione che ha bisogno di strumenti nuovi e di gerarchie condivise, «che non può reggersi più su quella consolidata orizzontalità pura, che diviene sempre più di pura facciata – scrive sacrosantemente il Gip Santoro a pagina 220 dell’ordinanza – perché vi è la consapevolezza che per sopravvivere è necessario ottenere un consenso diffuso anche tra chi subisce le peggiori conseguenze: non più guerre e morti inutili, non più tensioni tra i capicosca, ma regole ferree, valide per tutti, da applicare sotto il controllo di una gerarchia ben definita in cui i soggetti di vertice si raccordano tra loro per amministrare una macchina complessa ed insidiosa».
C’è, insomma, un’organizzazione che si evolve, attualizzandosi sulla base di principi condivisi. Un’organizzazione che ha una “testa” autorevole che coordina le azioni criminali, che non prevede distinguo, che trova larga legittimazione nella consapevolezza generalizzata del peso criminale dei suoi vertici che non sono più, soltanto, i riconosciuti capi delle rispettive articolazioni territoriali ma sono l’espressione, frutto di precisi accordi, di un’organizzazione di tipo mafioso che ha abbandonato logiche spartitorie antistoriche per divenire sempre più influente, funzionale e riconoscibile.
In tal modo alla società civile ed ai soggetti imprenditoriali della città giunge un messaggio inequivocabile: la stagione delle guerre è finita, la ‘ndrangheta tende ad essere unita ed a rafforzarsi all’interno e verso l’esterno pretendendo la sua parte in ogni attività economica.
«Si tratta, innegabilmente, di un primo tassello a prò della tesi della natura unitaria dell’organizzazione ‘ndrangheta nel suo complesso – scrive il Gip Santoro che da qui parte – . Tanto sarebbe stato confermato, successivamente, con l’operazione Crimine, del luglio 2010. E, d’altra parte, a simili conclusioni si giunge, per un verso, con le risultanze del procedimento c. d. Archi, cui è stato, poi, riunito quello c.d. Astrea».
Insomma, che piaccia o meno, quell’evoluzione giudiziaria alla scoperta della ‘ndrangheta 2.0 da li parte: da Meta. Peccato che – da allora – ci sia stato un intervallo di tempo che avrebbe dovuto essere utilizzato meglio. Il ferro si batte fin che è caldo ma va bene comunque.
CRIMINE
La pur importantissima indagine Crimine/Infinito – scivolata sull’asse Milano-Reggio Calabria nel luglio 2010 – conferma dunque – e lo scrive il Gip Santoro – le già note caratteristiche delle cosche calabresi (il numero eccezionalmente elevato di affiliati anche in cittadine di modeste dimensioni, i legami familiari che esistono fra gli associati e ne rafforzano i vincoli anche di natura criminale, il rispetto di una serie di tradizioni e di rituali, la straordinaria pervasività sul territorio e il controllo di molte delle manifestazioni della vita amministrativa, sociale ed economica, la
capacità di infiltrazione negli ambienti più diversi ed anche negli apparati investigativi e della sicurezza.
Accanto a queste conferme – scrive il Gip Santoro alle pagine 224 e 225 – le indagini hanno fatto emergere elementi di indubbia novità i cui passaggi essenziali messi in evidenza dal provvedimento di fermo e dal coevo provvedimento dell’autorità giudiziaria milanese, possono così essere sintetizzati:
1) l’esistenza della ‘ndrangheta come organizzazione di tipo mafioso unitaria, insediata sul territorio della provincia di Reggio Calabria;
2) l’esistenza di un organo di vertice che ne governa gli assetti, assumendo o ratificando le decisioni più importanti;
3) l’esistenza di molteplici proiezioni, oltre il territorio calabrese, di cui la più importante è “la Lombardia”, secondo il modello della “colonizzazione”, ed i rapporti tra la casa madre e tali proiezioni “esterne”.
«Si tratta di passaggi che costituiscono il punto di emersione di una complessa realtà criminale sulla quale, in modo del tutto corrispondente – conclude Santoro –è intervenuto il legislatore con il d.l. 4 febbraio 2010, n. 4, poi convertito in legge, che ha modificato il testo dell’art. 416 bis c.p. e dell’art. 1 l. n. 575/1965, aggiungendo, al novero delle organizzazioni di tipo mafioso, anche la ‘ndrangheta, in precedenza confinata nel concetto di “altre organizzazioni comunque localmente denominate”».
ALLINEAMENTO
A questo punto il Gip Santoro compie un “capolavoro” di equilibrismo, che personalmente apprezzo moltissimo perché chi legge questo blog sa come la penso: pur riconoscendo da sempre l’eccezionale valenza dell’operazione Crimine/Infinito ho sempre fatto un’enorme fatica (e con me, con il tempo, fior di studiosi, esperti, pentiti (per quel che si riesce nel dimostrarli attendibili), capimafia punti nell’orgoglio, e poi anche fior di magistrati, a riconoscere che don Mico Oppedisano (l’arzillo ottantenne di Rosarno, come l’ho spesso ironicamente definito a dispetto dei poveri di spirito o in malafede) potesse essere il “capo dei capi”, il Totò Riina della ‘ndrangheta. Superiore – dunque, se la logica ha una sua…logica – perfino alla trimurti reggina De Stefano/Condello/Libri (e aggiungiamoci Tegano, per quanto emanazione dei De Stefano). Ho sempre considerato che la straordinaria forza di don Mico Oppedisano fosse – per quell’anno di elezione – di essere il sacro custode delle regole di ‘ndrangheta (parole e musica di Nicola Gratteri, vale a dire colui che sostenne la pubblica accusa in procedimento!) che hanno, questo sia ben chiaro ancora una volta, una valenza vitale per la stessa.
Il Gip Santoro – giustamente – scrive che «ora, proprio grazie ai risultati delle indicate attività investigative, è possibile avviare, anche in sede giudiziaria, questo approfondimento, che consente di allineare le ricostruzioni di tipo generale alla concreta attualità di una realtà criminale tanto complessa quanto fin qui poco conosciuta. Intanto, è emersa con forza, ed in modo assolutamente univoco, l’unitarietà della ‘ndrangheta come organizzazione di tipo mafioso. Non più dunque semplicemente un’insieme di cosche, famiglie o ‘ndrine, nel loro complesso scoordinate e scollegate tra di loro, salvo alcuni patti federativi di tipo localistico – territoriale, certificati da incontri, più o meno casuali ed episodici, dei rispettivi componenti di vertice. Sotto tale profilo, i plurimi elementi di prova raccolti consentono di evitare il grave rischio di una visione parcellizzata, frammentaria e localistica della ‘ndrangheta, una visione che non ne ha fatto apprezzare la reale forza complessiva in termini di legami e connessioni con il mondo “altro”, sia che si tratti di pezzi delle istituzioni, sia che si tratti di settori dell’imprenditoria, sia infine che si tratti di appartenenti al mondo della pubblica amministrazione o della politica».
Trovo personalmente sublime la conclusione che – sono certo anche alla luce delle recentissime dichiarazioni del capo della Procura Federico Cafiero De Raho sull’evoluzione della ‘ndrangheta – saranno condivise dallo stesso Lombardo: le connessioni con il mondo «altro, sia che si tratti di pezzi delle istituzioni, sia che si tratti di settori dell’imprenditoria, sia infine che si tratti di appartenenti al mondo della pubblica amministrazione o della politica».
Beh, lo affermo io visto che la capa è mia: questo mondo “altro” – a mio modestissimo parere – ha cominciato a essere parte integrante della ‘ndrangheta 2.0 non certo dal 2005 (albori dell’indagine Meta quirichiamata dal Gip con forza) ma è stato costruito prima, molto prima. A partire dagli anni Settanta/Ottanta quando i De Stefano allevavano politici e professionisti a vangelo (non quello degli Evangelisti) con il silenzio dei pezzi deviati dello Stato all’ombra delle legge deviate.
Per ora ci fermiamo qui ma – tra qualche ora – ci ritroviamo per approfondire questa importante operazione.
2 – to be continued (la prima puntata è stata pubblicata ieri, 19 novembre)