La lotta alla mafia 2.0 è come la finale dei mondiali di calcio: quel che conta è il risultato. Non importa se, dopo essere stata dominata per l’intera gara, la tua squadra vince all’ultimo secondo del tempo supplementare, con un pallone che sbatte prima sul difensore, poi sul polpaccio dell’arbitro, colpisce il palo e finisce in rete. L’importante – nella lotta alle mafie 2.0 – è vincere.
Il bel gioco? Quando c’è da sconfiggere (cosa che non avverrà neppure tra un miliardo di anni) o almeno contrastare le mafie 2.0 (cosa invece possibile) il bel gioco non conta. Conta la classifica della partita (doppia): da una parte le mafie 2.0, dall’altra la Giustizia. Chi ha più punti vince.
Questa immagine – che di spirito decubertiano ha poco – mi è venuta in mente dopo giorni e giorni che ho passato a leggere e rileggere le 3.007 pagine dell’ordinanza monstre con la quale l’8 ottobre il gip di Reggio Calabria Domenico Santoro ha accolto, fatto propria e rielaborata la richiesta del pm della Dda Giuseppe Lombardo e della Procura di Reggio. L’indagine – chiamata Araba Fenice – è di quelle destinate a fare rumore perché riporta avanti l’orologio della lotta alla mafia dopo decenni in cui le lancette erano state portate indietro.
Di Araba Fenice scriverò in una serie di articoli di cui, quello di oggi, è il primo.
Questa indagine – che ovviamente, come tutte, dovrà passare il vaglio degli eventuali gradi di giudizio e dunque, fino a quel momento, tutti sono innocenti – prova e proverà, se non a far coincidere la verità processuale con la realtà storica, quantomeno a portarle vicine.
L’ordinanza, in cui il Gip Santoro interviene, come è suo sacrosanto dovere fare, con frequenza dialettica e giuridica, è uno sottile gioco di equilibri che, da una parte, salva le conclusioni dell’indagine Crimine/Infinito e, dall’altra, con il dipanarsi dell’ordinanza stessa, cerca di avvisare i naviganti nell’oceano della mafia 2.0 che la “cupola” non è più “invisibile”.
Rectius: che una quota parte di “invisibili”, con i processi Meta, Astri-Archea e con l’operazione Breakfast (quella vera, che non è ancora venuta a galla) e Araba Fenice, appunto, è entrata nel taccuino della Procura di Reggio Calabria che a furia di prendere appunti rischia – e questo la cupola lo sa – di riscrivere il libro della mafia a Reggio e in Calabria. Contando – ovviamente – anche sulla riscrittura dei capitoli precedenti (a partire dalla scalata al vertice dei De Stefano dopo l’omicidio del giudice Nino Scopelliti).
Inutile girarci intorno: il cuore di Araba Fenice fa perno sulla figura di un avvocato che – secondo la Procura – è la cerniera che congiunge uno dopo l’altro i dentini della cintura lampo che chiude Reggio, la Calabria tutta e parti del Paese, in una sacca mortale. Dentini fatti di professionisti, politici (qui non ci sono e fino a che non usciranno fuori potremo parlare all’infinito di lotta alle mafie 2.0), cosche, massoni deviati, Stato deviato (idem come sopra alla voce politici) e via di questo passo.
Rectius: l’avvocato in questione è “una” cerniera e non “la” cerniera, visto che ogni araba fenice che si rispetti è in grado di risorgere dalle proprie ceneri.
Questo il pm Lombardo lo sa e vorrei che diventasse non un credo di un singolo pm ma il motto di un’intera Procura che – lo scrivo da mesi e mesi – o fa il botto con una filotto di indagini che puntano dritte e velocemente al cuore della cupola mafiosa 2.0 o il botto glielo fanno fare, visto che è impensabile che, colpita, la stessa cupola non reagisca. Sia chiaro, ha già cominciato a farlo: basta vedere alla voce “delegittimazione” che, come un venticello caldo, da mesi squallidi personaggi a libro paga del potere marcio hanno cominciato a soffiare su Lombardo, su uomini a lui vicini e sulla Procura stessa.
Come vedete il nome dell’avvocato in questione neppure lo faccio. E sapete perché? Per rispetto di un’indagine giudiziaria aperta e lunga? Anche, seppur il dovere di cronaca mi renderebbe facile scriverne il nome e il cognome.
La realtà è che sono convinto che questo avvocato – se l’indagine si traducesse in verità giudiziaria – non è nient’ altro che un anello della catena mafiosa 2.0. Citare solo il suo nome avrebbe senso? O citare quello di altri professionisti (compresi amministratori giudiziari) coinvolti in questa indagine? Si ma solo dopo, quando tutto sarà definitivamente chiaro e chiarito. Ho deciso di adottare questa tattica e da ora in poi preferisco vedere se la scia tracciata da questi processi e queste indagini porterà davvero a fare breccia nella ‘ndrangheta evoluta.
ARRIBA ARRIBA
Quanto questo avvocato – e con lui tutti i professionisti latu sensu della cupola mafiosa 2.0 – sappia che il ruolo della magistratura è fondamentale nel dare loro una caccia senza tregua, è dipinto in una telefonata con la quale descrive l’arrivo del nuovo (allora) capo della Procura di Reggio Calabria: «[“…omissis … vi dico una cosa….vedete che oggi c'è…ad oggi c'è il meglio della magistratura e dei dirigenti della Questura, ti fanno il culo così, onestamente … cioè tutto il gruppo che è arrivato qua a Reggio…omissis…Pignatone, altri 4, Renato Cortese… era il gruppo di Riina e Provenzano…omissis…”]. Ciò, nella lucida lettura dell’evoluzione del contrasto alla criminalità organizzata da parte dell’avvocato, faceva da contraltare alla scomparsa dalla scena di una serie di soggetti evidentemente meno adusi a simili operazioni investigative [“…omissis…cioè non è che c'è più …omissis…voglio dire…o…omissis… che facevamo un muretto per mettere il cane! Un muro così! Ci sono oltre 5/600 provvedimenti pronti di sequestri di beni. All'elemosina li lasciano, a tutti, tutti all'elemosina li lasciano …inc/le… omissis…stanno facendo delle indagini, voglio dire, esecutive. Ci sono dei magistrati seri, attenti, gente che per anni ha….ha seguito questi filoni, che sanno come, i flussi di denari, i cazzi. Guardano le carte, quattro estratti conto e capiscono se è un assegno giro, se è un assegno posdatato, se è un assegno di procura…omissis…”]».
REGGIO BENE
Di questo avvocato il pentito Roberto Moio, il 17 dicembre 2010 dirà nel corso di un interrogatorio che è «legato alla Reggio bene ed alla politica; mi ha chiesto voti per suo fratello ed altri; in occasione delle ultime elezioni regionali il fratello mi ha chiesto voti per soggetto di cui non ricordo il nome; con tali soggetti la famiglia Tegano ha un rapporto ed una amicizia particolare».
Con quattro sublimi righe di interrogatorio un pentito di ‘ndrangheta dipinge – «candidamente» scrive il Gip Santoro a pagina 2.561 – un mondo: quello dell
a “Reggio bene”. Nulla di nuovo sotto il sole tranne per chi ha riportato indietro negli ultimi decenni l’evoluzione della ‘ndrangheta (o di Cosa nostra) verso l’homus oppedisanus anziché verso l’homus destefanianus, condellianus e teganus.
A Reggio già negli anni Settanta e Ottanta la “Reggio bene” era fatta di professionisti collusi che andavano a braccetto con politici sporchi, uomini dello Stato deviati, estremisti neri e uomini delle cosche. Dov è la notizia? Verrebbe da chiederlo a chi – in ogni ambiente – ha fatto fuori 20 anni di indagini giudiziarie indirizzate a colpire la cupola o ha fatto di tutto per farle fallire.
LA PASSIONE POLITICA
A questo professionista viene cucito addosso il ruolo perfetto della cerniera (rectius: di una cerniera). Scrive e ribadisce il Gip Santoro alle pagine 2664, 2615 e 2622: «al riguardo, va premesso che …omissis…era stato nominato capo-struttura del neo-eletto Francesco Fortugno, proprio in virtù dell’appoggio elettorale prestatogli, salvo passare – subito dopo l’omicidio – a stringere accordi con l’acerrimo nemico elettorale del Fortugno, Crea Domenico, successivamente arrestato e poi condannato all’esito del primo grado di giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Quanto indicato è rinvenibile nelle dichiarazioni rese dall’…omissis….all’udienza del 7 novembre 2007 innanzi alla Corte d’Assise di Locri, allegate in quel procedimento».
Ragassi: questa è la Calabria. Un avvocato – il cui nome, ripeto, è uno dei tanti anche se dagli inquirenti e dagli investigatori è doverosamente ritenuto una pedina fondamentale ma sta a loro e non a me stabilirlo – che passa con disinvoltura dai servigi ad compianto vicepresidente del consiglio regionale, assassinato da menti sopraffine il 16 ottobre 2005 a Locri, ai servigi per il suo più acerrimo nemico.
Da decenni, mica da ieri. La Calabria, ragassi, è trooooppo avanti!
Credere che sia così da ora è la più grande mistificazione storica che si possa commettere. Quando parlo di lancette che quest’ordinanza porta avanti (ma non riallinea alla verità storica) sull’orologio della lotta alla mafia 2.0, non posso infatti dimenticare che le radici di questa esclation che, da militare, diventa sociale, affondano negli anni Settanta.
Sissignori, una ‘ndrangheta che – da montanara – si trasforma velocemente (e non lentamente come anni di processi hanno scandito) in sublime cupola mafiosa capace di far studiare i propri discepoli che diventano avvocati, commercialisti, magistrati, medici, politici, imprenditori, professori, giornalisti e via di questo passo. Ripeto e mi ripeterò sempre: la cosca De Stefano – da questo punto di vista – ha segnato le tappe di questa progressione didattica, aprendo a Reggio una vera e propria università degli studi mafiosi che – mai e poi mai – chiamerà a insegnare nelle materie di indirizzo i vari don Mico Oppedisano. A loro sarebbero riservati si parti nobili ma del tipo “Esegesi delle fonti del vangelo secondo Polsi” oppure “Storia della Santa dalle origini a Montalto”. Insomma: importantissime per conoscere chi sono e da dove vengono i mafiosi calabresi ma meno utili per scoprire dove va la cupola mafiosa 2.0.
Tra poche ore sarò di nuovo con voi.
1 – to be continued