Di Roberto Galullo
L’arresto odierno di Nino Lo Giudice – a giugno di quest’anno pentito di essersi pentito con un primo memoriale spedito al Tribunale di Reggio prima di darsi alla macchia da Macerata, località segreta dove scontava una pena ai domiciliari – apre scenari straordinariamente interessanti perché, c’è da scommetterci, tornerà a pentirsi.
Lo farà solo a una condizione: parlare direttamente con l’unico pm di cui a Reggio Calabria si fida, vale a dire Giuseppe Lombardo. Del resto lo ha scritto lui stesso – nel secondo memoriale che ha spedito ad agosto di quest’anno alla stampa e alla Procura di Reggio Calabria – che Lombardo è «onesto» ed è un «brillante puro».
Lo farà solo con lui anche perché sa che ad affiancarlo ci sarà il capo della Procura, Federico Cafiero De Raho, con il quale Lombardo ha trovato un naturale affiatamento e che Lo Giudice descrive come «persona giusta che dà sicurezza».
I nastri da riavvolgere nella complessa vicenda che ha portato Lo Giudice a pentirsi – nel momento in cui, a ottobre 2010, si autoaccusò della bomba messa davanti alla Procura generale di Reggio Calabria nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 2010 – sono molti. Elencarli tutti è impossibile. Analizziamo solo i principali.
Il primo nodo da affrontare è proprio quello relativo alla bomba di quasi 4 ani fa e alle successive intimidazioni ai danni del procuratore generale Salvatore Di Landro (bomba esplosa nell’androne di casa) e al bazooka annunciato sotto la Procura di Reggio, destinato all’ex capo Giuseppe Pignatone. Nel secondo memoriale, infatti, Lo Giudice fa dieci passi indietro rispetto ad alcuni di quei gesti e il capitolo di attentatori e, soprattutto, mandanti, sarà tutto da riaprire.
Il secondo nodo da affrontare è quello relativo alle pesantissime accuse rivolte all’allora numero due della Direzione nazionale antimafia, Alberto Cisterna, accusato di essere un corrotto. Il procedimento finì ancor prima di iniziare: la stessa Procura di Reggio chiese e ottenne dal Gip l’archiviazione ma la carriera di Cisterna (destinato verosimilmente a tornare a Reggio Calabria come capo o a scalare il vertice della Dna) finì li e ora è a Tivoli (Roma) come giudice civile. Nel primo memoriale che Lo Giudice spedì a giugno dopo la sua fuga si rimangiò tutto: disse di essere stato costretto a inventare perché pressato da inquirenti e investigatori. Difficile credergli prima (anche alla luce dell’archiviazione), molto più difficile credergli dopo visto che tirava addirittura in ballo l’ex capo della Procura Giuseppe Pignatone.
Il terzo nodo è quello della valanga di accuse che ha trascinato un altro stimato magistrato della Dna, Gianfranco Donadio, anch’egli accusato di aver fatto pressione per spingere Lo Giudice a parlare delle stragi siciliane e della collaborazione prestata dalle famiglie calabresi.
Tutto questo – e molto altro ancora – passerà al vaglio della Procura di Reggio che, verosimilmente, si troverà di fronte molto materiale inaspettato. Nella perquisizione compiuta all’alba nel rifugio in cui Lo Giudice è stato arrestato, sono stati infatti trovati files e materiale vario. In quel materiale Lo Giudice conserva moltissime cose e a dirlo è lui stesso. Nel memoriale di agosto, quando invita inquirenti e investigatori a non cercarlo, scrive che molte delle cose spedite al Tribunale di Reggio, alle Procure di Reggio Calabria e Catanzaro e alla stampa erano copie mentre lui deteneva gli originali e «tante altre registrazioni effettuate in tutto quel tempo della mia collaborazione…».
Siamo solo all’inizio di un nuova storia in cui sarà solo il tempo, la pazienza e la certosinità del lavoro di magistrati e investigatori, a rendere giustizia di verità e falsità propalate in questi anni da Lo Giudice.