I sovversivi: in terra di mafia la normalità è rivoluzione – Le piccole-grandi storie di chi resiste (e resta) al Sud

Oggi vi racconto di un libro che è appena uscito: «I sovversivi – In terra di mafia la normalità è rivoluzione» (Saggi tascabili – Editori Laterza).

E’ stato scritto – con la passione di chi fa il giornalista per amore e non per status – da Nino Amadore, collega messinese da tempo trapiantato a Palermo, da dove segue per il Sole-24 Ore, con puntualità e rigore, l’evoluzione sociale, politica ed economica della sua (e nostra Sicilia).

Per anni – quando lavoravamo insieme sullo stesso fronte, quello dei dorsi regionali del Sole-24 Ore e ancor dopo il mio addio a quell’esperienza, ormai 9 anni fa – ha seguito da vicino anche la Calabria e questo gli ha permesso, con sentimento e professionalità, di leggere e spiegare le storie e i volti di chi, al Sud, resiste alla tracotanza e alla forza intimidatrice della criminalità organizzata. Siano essi sindaci, librai, professionisti, insegnanti, imprenditori, gente comune, magistrati, giudici o preti. Si chiami Cosa nostra, stidda o ‘ndrangheta la piaga da curare (o almeno provarci).

Con questo libro dà voce ad alcuni protagonisti di questa resistenza civile (che al tempo stesso è insegnamento e formazione) e le loro storie si incrociano con quelle di altri uomini e altre donne che provano, ogni giorno, a lottare per la dignità propria e quella dei loro meravigliosi popoli.

Se volete essere meno soli e se volete provare anche voi ad alzare un muro di legalità, valori e principi, fatto di singoli mattoni, leggetelo.

Per farvi capire che ne vale la pena vi propongo la conclusione del libro in cui – ciascuno di voi e di noi – può rispecchiarsi.

r.galullo@ilsole24ore

LA CONCLUSIONE

Voleva fare l’avvocato e certo se lo aspettava il padre, un maresciallo della guardia di finanza da sempre abituato a confrontarsi con l’applicazione della legge in una città difficile come Palermo. Voleva fare l’avvocato per quell’innato senso di giustizia che sentiva prepotente. E invece Giacomo Moscato si è ritrovato a fare il manager, diciamo così, di un’azienda molto particolare: un’impresa che lo Stato ha sottratto alla mafia, ai prestanome dei fratelli Graviano di Brancaccio, mandanti ed esecutori nello stesso tempo delle terribili stragi del ’92 e del ’93, possibili interlocutori di poteri deviati del mondo dell’impresa e dello Stato, interessati a creare nel nostro Paese un nuovo ordine istituzionale.

Giacomo non ha affatto il piglio dell’eroe, anzi tutt’altro, ma ha capito meglio di altri che l’eroismo, a volte, sta banalmente nei fatti quotidiani, che si passa alla storia dell’umanità – quella lontana dai libri di storia e per fortuna anche dalla retorica – per aver fatto ciò che si sentiva, ciò che si pensava in quel dannato momento. E se a volte si tratta di attimi, in questo caso siamo di fronte ad azioni che si ripetono nel tempo e che continuano ancora: una quotidianità eroica, perché eccezionale diventa ogni singola scelta.

Giacomo, si diceva, voleva fare l’avvocato o, casomai, l’amministratore giudiziario di beni confiscati alla mafia. E con questo spirito aveva frequentato il master dell’Università di Palermo. Ci sono incontri che possono cambiare la vita degli uomini, è quasi banale dirlo. Per Giacomo è andata così: al master ha incontrato Rosa La Plena, una donna gracile e allo stesso tempo capace di resistenze infinite. Una donna che assomiglia a quelle siciliane di una volta, costrette allora dalla durezza delle circostanze a superare prove difficilissime. Ecco com’è Rosa, nel suo lavoro, in un ambito che coinvolge un sistema: la gestione delle aziende sequestrate o confiscate alla mafia. E nelle aziende Rosa vede il riscatto dal potere mafioso e lo riconosce nella conquista della libertà che coinvolge gli operai, gli impiegati: di loro si è occupata per tanti anni a Italia Lavoro, la società per azioni, si legge sul sito, totalmente partecipata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che opera, per legge, come ente strumentale del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali per la promozione e la gestione di azioni nel campo delle politiche del lavoro, dell’occupazione e dell’inclusione sociale. Poi, per una scelta sciagurata dell’allora ministro del Lavoro e del Welfare Maurizio Sacconi, è stata abolita proprio quell’area dell’agenzia governativa che si occupava delle vicissitudini dei dipendenti di aziende sequestrate o confiscate. Rosa si è opposta, non solo per salvare, legittimamente, un posto di lavoro che era stato abolito con l’usurpazione della verità, ma anche per tutelare migliaia di lavoratori che aspettavano un segnale dallo Stato per tornare a pensare che è lo Stato a dare lavoro e sviluppo, mentre la mafia toglie e distrugge tutto. Per anni ha continuato a difendere i lavoratori dell’azienda di trasporti Riela Group e per anni, a volte in perfetta solitudine, ha continuato a raccontare in tutte le sedi possibili che i Riela, mafiosi di gran lignaggio ed evidentemente ben appoggiati nell’ambiente catanese, avevano costituito una società parallela a cui i grandi gruppi del Nord – e persino qualcuno legato all’antimafia militante – avevano affidato il trasporto delle merci, ben coscienti che la sicurezza garantita dai Riela non era altro che figlia della sicurezza criminale. E ci sono voluti procedimenti giudiziari, sequestri e arresti per rendere evidente che, a Catania, in quel settore gli imprenditori mafiosi continuavano a comandare, mentre nel frattempo la Riela Group, gestita da chi aveva creduto nello Stato, ovvero da amministratori che si erano fidati della parola dei rappresentanti dello Stato, andava a ramengo. Questa è la Sicilia e queste sono le contraddizioni di una certa lotta alla mafia, che dovrebbe avere nello Stato il caposaldo e invece così non è: ci si chiede cosa stiano a fare in prima fila alle celebrazioni in ricordo delle vittime alcuni funzionari dello Stato, che a volte solo per stupidità e inerzia hanno lavorato a sostegno di Cosa nostra. Giacomo incontra Rosa all’università e, ancora fresco di laurea in Giurisprudenza, viene introdotto nel mondo complesso della gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata, in cui spesso va in scena l’eterogenesi dei fini: in linea di principio si dichiara di voler lottare contro la mafia, di fatto si continuano a perpetrare pratiche che nulla hanno a che fare con la lotta a Cosa nostra. Sicché Giacomo, una volta concluso il master, si prende in carico di gestire la Iti Caffè, marchio molto conosciuto in città e non solo, affermato fornitore di alberghi di lusso, bar, supermercati, un’azienda ingombrante la cui sede è un capannone nascosto in un cortile tra le case del quartiere Brancaccio, nel cuore del dominio dei fratelli Graviano: a loro fa capo nonostante le smentite e le precisazioni dei titolari, che per il Tribunale di Palermo sono solo teste di legno, prestanome. Un affare per la mafia, che considera la Iti un piccolo gioiello da preservare: l’imposizione delle forniture, come tutti sanno, abbatte il rischio dell’accusa di estorsione e consente di far crescere i volumi degli affari dei mafiosi, e il fatturato, con gli amici dei Graviano al timone, era di almeno due milioni e mezzo annui. Fino al 2006 l’azienda, che allora si chiamava Iti Zuc, era intestata ai prestanome; nel 2009 è stata definitivamente liquidata, a causa di un buco in bilancio di un milione di euro. In quel momento il giudice del Tribunale di Palermo ha dovuto decid
ere sul destino del patrimonio aziendale e soprattutto dei lavoratori. A Palermo è sempre vivo il ricordo delle manifestazioni di piazza di lavoratori che portavano in bella mostra cartelli con su scritto «la mafia dà lavoro, lo Stato no». Ed è questo che i giudici, guidati dal presidente della Sezione misure di prevenzione Silvana Saguto, vogliono assolutamente evitare. Decidono di far ripartire la macchina con un altro nome, un’altra ragione sociale, ma un unico punto di riferimento: Giacomo Moscato. Vengono selezionati gli ex lavoratori della Iti tra coloro che sono rimasti e sono disponibili ad andare avanti con l’antimafia per fare ancora quel caffè così buono, prodotto con l’antica tostatura a legna e da gustare insieme ai chicchi immersi nel cioccolato: sono dieci i lavoratori che restano, e sono loro i fondatori e gli animatori della Conca d’Oro caffè, società cooperativa di cui Giacomo Moscato diventa presidente. Alcuni lavoratori non volevano costituirsi in cooperativa, altri invece sono andati a lavorare per l’ex proprietario della Iti, che nel frattempo è riuscito a costituire un’azienda simile, se non uguale, nel tentativo di riprendersi quella fetta di mercato che nel frattempo aveva perso (ma non del tutto, evidentemente).

Comincia così la sfida per rendere normale la gestione dell’azienda. Il 23 novembre 2009 viene firmato il contratto di affitto che consente alla cooperativa di rilevare il compendio aziendale che fu della Iti: quella mattina qualcuno mette della colla nei lucchetti delle saracinesche di via Antonio Ugo. È un segnale preciso, e non sarà l’unico: lo stillicidio di intimidazioni va avanti da allora, e si è spinto anche a livelli estremi come l’incendio del portone di casa di Giacomo Moscato. Nonostante tutto, questi episodi serviranno a far crescere la cultura della legalità: inizialmente gli operai non volevano denunciare, forse non erano avvezzi con la vecchia gestione a rivolgersi ai carabinieri. Con Giacomo tutto cambia, anche a costo di scontrarsi con la strafottenza di certi tutori dell’ordine che trattano i cittadini onesti alla stregua dei criminali.

Nel frattempo, per una di quelle strane coincidenze che caratterizzano le scelte di molte imprese e cittadini palermitani, quando la Iti passa allo Stato e a quei lavoratori onesti che vogliono continuare a lavorare senza avere contatti con la mafia, molti clienti vanno via: disdicono il contratto cinque hotel del gruppo Acqua Marcia, i bar dell’aeroporto, i supermercati Gs e anche i ristori che si trovano all’interno degli uffici della Regione siciliana e dell’Assemblea regionale. «Altri se ne sono andati – racconta Giacomo – perché non volevano il nostro caffè: rappresentava lo sbirro, la polizia». È evidente che, in tema di transazioni commerciali, è difficile avere a che fare con un’azienda che rispetta tutte le regole: non fa consegne in nero e fattura tutto, paga gli operai e versa i contributi, paga le tasse. Non è cosa che piace molto a chi è evidentemente abituato in un altro modo: non è detto che tutti gli ex clienti della Conca d’Oro caffè abbiano disdetto per questi motivi, ma rimane il dubbio che alla base delle loro scelte, a parità di qualità del prodotto e con maggiori garanzie di legalità e rispetto delle regole, possano esserci convenienze non sempre confessabili.

C’è di più: «appena terminano le intimidazioni, iniziano gli attacchi commerciali e istituzionali», ha denunciato Davide Ganci del Consorzio Ulisse, che riunisce numero- se cooperative sociali e di lavoro tra cui anche la Conca d’Oro. «I ricavi della cooperativa crollano – ha raccontato Paolo Biondani in una bella inchiesta su «l’Espresso» – e proprio allora si scatena la tempesta burocratico-legale: il Comune taglia l’acqua e reclama presunti arretrati a partire dal 1999, mai chiesti ai mafiosi. Poi l’immobiliare proprietaria intima lo sfratto: le mura appartengono per un quarto alla sorella del presunto prestanome ma a chiedere lo sgombero è una società milanese che ha comprato gli altri tre quarti da un astuto curatore fallimentare». Una situazione che complica ancora di più la gestione della normalità di questa cooperativa, e Giacomo è costretto a occuparsene a tempo pieno, acquisendo sul campo le conoscenze necessarie in un settore (quello del caffè) che mai avrebbe immaginato di dover affrontare se non da consumatore al bar o a casa. «Sono iscritto all’Ordine – racconta Giacomo –, esercito la professione di avvocato ma molto marginalmente. Il mio tempo è assorbito quasi totalmente dalla cooperativa, che ho sposato come fosse una missione: riuscire a renderla un’azienda come altre. E devo dire grazie a Rosa La Plena che è stata la mamma di questo progetto ed è per merito suo che ho trovato il vero coraggio per andare avanti». E coraggio ce ne vuole parecchio, viste le condizioni difficili in cui Giacomo, e con lui i lavoratori, si trova a operare: oltre al portone di casa bruciato e alla colla nelle serrature, le continue intimidazioni, le due C (per carabinieri) incise nella targa dell’automobile di questo presidente della cooperativa quarantenne che si batte per rendere la vita dell’impresa e la vita di dieci famiglie normale e libera dalla mafia. Oggi la Conca d’Oro è una piccola azienda che si confronta con il mercato da una posizione non sempre paritaria, fornisce il caffè a piccoli supermercati e bar ed è molto sostenuta dal sistema delle cooperative: «C’è una risposta da parte dei cittadini palermitani e siciliani – dice Giacomo – che ora sono più attenti nell’acquisto del nostro prodotto: preferiscono sostenere un’azienda che ha fatto un percorso di legalità comprando un caffè che, oltre a essere di buona qualità, ha quel marchio in più, che è quello caratterizzato dal riscatto sociale». La cooperativa fattura ora, mediamente, 800 mila euro l’anno e ha bisogno di fare investimenti per crescere. Deve comprare, per esempio, una confezionatrice che le permetterebbe di entrare a pieno ritmo nel mercato delle Ipercoop. Ma soprattutto deve trovare quelle risorse che le permetteranno di lasciare Brancaccio e ristrutturare l’immobile di 900 metri quadrati che le è stato assegnato in un’altra zona di Palermo. E tutto ciò mentre la crisi economica italiana e internazionale è forte: Giacomo ha dovuto chiedere gli ammortizzatori sociali per alcuni dipendenti. Per la nuova sede servono almeno 400 mila euro di investimenti e Giacomo ha chiaro il piano di sviluppo aziendale che intende discutere con le banche per convincerle che questa azienda può crescere. Nella normalità e senza assistenzialismo. Diciamola tutta: la Conca d’Oro è un modello di gestione aziendale di un’impresa tolta alla mafia, come già è stato sperimentato a Trapani con la costituzione della Calcestruzzi ericina, e come Rosa La Plena, che nel Trapanese aveva dato un contributo da dirigente di Italia Lavoro, avrebbe voluto ripetere a Catania con la Riela Group. È il simbolo di qualcosa che si può realizzare. Nonostante tutto. Nonostante, a volte, anche lo Stato.