Nell’indagine sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra torna d’attualità la figura di Licio Gelli. Pochi giorni fa, infatti, il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi e il pm Roberto Tartaglia hanno interrogato il capo della P2 presso la Procura della Repubblica di Arezzo.
E’ probabile (spero ovviamente di sbagliarmi) che il contributo di Gelli, che ha 94 anni, sia stato prossimo allo zero, sulla falsariga di quanto poterono sperimentare nel 2008 i sostituti Fernando Asaro (ora alla Procura generale di Caltanissetta) e Paolo Guido, che accompagnati dal procuratore aggiunto Roberto Scarpinato, salirono fino ad Arezzo per capire quali fossero i contatti tra ambienti massonici siciliani e ambienti mafiosi.
Incassarono una “facoltà di non rispondere” ed è verosimile che, al di la di qualche indicazione assolutamente generica, dal Venerabile i pm anche questa volta non abbiano cavato un ragno dal buco.
Ma perché i magistrati hanno sentito l’esigenza di ascoltarlo?
La memoria è spesso troppo corta e allora vale la pena di provare a rinverdirla riscoprendo l’indagine “sistemi criminali” dell’allora Pm (ora a capo della Procura generale di Palermo) Roberto Scarpinato (detta, guarda caso, anche Gelli+13) che nel 2001, su richiesta della stessa Procura, fu archiviata perché gli elementi acquisiti non furono sufficienti per sostenere l’accusa in giudizio. Non fu, insomma, sufficientemente provato che l’organizzazione mafiosa deliberò di attuare la “strategia della tensione” per agevolare la realizzazione del progetto politico del gruppo Gelli–Delle Chiaie, né che l’organizzazione mafiosa avesse approvato l’attuazione di un piano eversivo-secessionista per effetto di contatti con il gruppo Gelli – Delle Chiaie.
«E’ infatti ipotizzabile allo stato degli atti – si legge però in quella richiesta di archiviazione – anche una spiegazione alternativa: e cioè che il “piano eversivo”, concepito in ambienti “esterni” a Cosa Nostra, sia stato “prospettato” a Cosa Nostra al fine di orientarne le azioni criminali, sfruttandone il momento di “crisi” dei rapporti con la politica e che l’organizzazione mafiosa ne abbia anche subìto – anche temporaneamente – l’influenza, senza però impegnarsi a pieno titolo nel piano eversivo-secessionista. Peraltro, la verifica di tale ipotesi, e cioè dell’eventuale influenza di “soggetti esterni” sulle determinazioni di Cosa Nostra nella fase iniziale della strategia della tensione attuata nel 1992, esula dallo specifico oggetto del presente procedimento…».
GLI AMBIENTI ESTERNI
Come potete leggere, l’allora sostituto procuratore Scarpinato richiamava una spiegazione possibile allo stato di quegli atti: vale a dire il concepimento della strategia stragista in “ambienti esterni” a Cosa nostra. Allo stesso tempo, però, quel piano eversivo non era oggetto di quella indagine ma di altre: allora, in svolgimento, c’era il procedimento sull’omicidio di Salvo Lima mentre oggi c’è in “fragranza mediatica” quello proprio sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra e così, anche il ruolo di Gelli allora archiviato, merita di essere nuovamente approfondito.
Tra gli altri, oltre a Gelli, Stefano Menicacci, Delle Chiaie, Rosario Cattafi, Filippo Battaglia, Giovanni Di Stefano e Paolo Romeo, uscirono immacolati da quell’indagine ma, evidentemente, nel momento i cui il processo sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra entra nel vivo, spicchi e aspetti non approfonditi di quell’indagine ritornano a galla.
Spicchi che richiamano a quelle menti esterne a Cosa nostra nella strage di Capaci (e non solo) che neppure i recenti arresti della Procura di Caltanissetta hanno oscurato. Anzi.
LE RISULTANZE SU LICIO GELLI
Ma cosa scoprirono all’epoca e non riuscirono a dimostrare inquirenti e investigatori sulla posizione – ripetiamo archiviata – di Licio Gelli?
Nell’informativa della Direzione investigativa antimafia (Dia) del 4 marzo 1994 – entrata a pieno titolo in quella indagine – si segnalavano alcune sue “singolari” interviste rilasciate proprio nel periodo in cui divampava la strategia della tensione del 1992-93.
Nel settembre del 1992 Gelli rilasciò un’intervista al settimanale (oggi non più) L’Europeo (10 settembre 1992) nel corso della quale aveva, fra l’altro, dichiarato: «E’ da un pezzo che ci sarebbero tutte le condizioni per un colpo di Stato onde eliminare la teppaglia che ci sta rapinando…In realtà, sa chi rappresenta l’unica speranza, in questo paese alla deriva? Bossi. Bossi, che se davvero darà il via allo sciopero fiscale.. Eh bè: sarò il primo ad aggregarmi. D’altronde perché dovrei pagar le tasse ?…. ».
Sul quotidiano (oggi non più) Paese Sera del 3 agosto 1993, in un’intervista intitolata “Prevedo una rivoluzione”, Gelli individuò negli attentati dell’estate di quell’anno la logica conseguenza dello stato di esasperazione in cui versava la popolazione oppressa da una classe politica corrotta e da un governo iniquo, responsabile di ingiustizie fiscali e della crescente disoccupazione. Secondo Gelli, infatti, si sarebbe trattato dei primi segnali di una ribellione montante provocata dal desiderio di accelerare il processo di ricambio della classe politica ed ogni ulteriore ritardo, unitamente al progressivo aumento dei disoccupati, sarebbe stato suscettibile di far degenerare l'insofferenza della popolazione in una autentica rivoluzione.
La Procura di Palermo notò che nei suoi interventi pubblici e nelle sue interviste Gelli esprimeva concetti quali «l’esasperazione in cui versa la popolazione oppressa» e indicò come via d’uscita quella di «accelerare il ricambio della classe politica corrotta e iniqua…».
Argomenti – sottolineò ancora la Procura – che riecheggiavano quelli formulati da Totò Riina nell’esporre, nel settembre del 1992, il piano eversivo e che così vengono riferiti dal collaboratore di giustizia Maurizio Avola: «il popolo esasperato sarebbe stato propenso ad appoggiare gli uomini che sarebbero scesi tempestivamente in campo, sbandierando a parole un programma di rinnovamento...».
Sempre nell’informativa della Dia del 4 marzo 1994 si coglievano certe “assonanze” fra la situazione verificatasi nel 1993 con altre situazioni degli anni passati: «sembra riproporsi un clichè ben noto al Gran Maestro, già pianificato e posto in essere negli anni'70, quando, mediante i suoi contatti massonici – che gli consentivano di poter essere presente all'interno dei servizi segreti, dell’Arma dei Carabinieri e dei principali organismi pubblici, nonché in ambienti del sistema criminale, supportato da per
sonaggi come… e tanti altri, massoni e non, gravitanti di massima nell'area della destra eversiva – aveva ordito un organico piano di assalto alle Istituzioni democratiche, finalizzato comunque, al di là dell'apparente risultato politico, all'accrescimento del suo già notevole potere personale».
Venivano pertanto richiamate dall’informativa, fra l’altro, le dichiarazioni degli estremisti di destra Paolo Aleandri e Sergio Calore, rese negli anni '80 davanti a varie autorità giudiziarie e alla Commissione parlamentare sulla loggia massonica P2, relative ai progetti di golpe nei quali Gelli aveva già tentato di realizzare trasformazioni istituzionali nel Paese in senso spiccatamente conservatore, anche avvalendosi della convergenza di interessi con altri ambienti, come quello della destra estrema, al fine ultimo di accrescere il proprio potere di ricatto e di controllo nei confronti di ambienti politico-economici coinvolti nel tentativo eversivo oppure da esso intimoriti.
La Procura di Palermo, all’epoca (e ricordiamo che l’indagine scattò nel 1998) inoltre acquisì atti che confermavano l’esistenza di rapporti, risalenti nel tempo, fra Licio Gelli e vari ambienti della criminalità organizzata.
Con riferimento a Cosa Nostra ne parlarono collaboratore storici che non esitarono a scendere nei dettagli.
La Procura inoltre accertò rapporti (telefonate, incontri a Roma e ad Arezzo, appuntamenti annotati nell’agenda di Gelli e utenze telefoniche annotate nella sua rubrica personale) di Licio Gelli con un gioielliere strettamente legato fin dagli anni ’70 alla criminalità organizzata napoletana (Michele Zaza), romana (Banda della Magliana) e ad esponenti di spicco di Cosa Nostra e in particolare ad Alfredo Bono, uomo d’onore della famiglia di S. Giuseppe Jato. Peraltro, dalle indagini della Dia, risultavano anche compresenze alberghiere di Licio Gelli e Alfredo Bono presso l’hotel Ambasciatori (residenza abituale romana di Licio Gelli) nell’estate ’91.
Sui rapporti di Gelli con ambienti della criminalità organizzata pugliese, ed in particolare della Sacra Corona Unita, si è intrattenne a lungo il collaboratore Marino Pulito e la Procura acquisì riscontri.
Non meno cospicua fu la mole degli elementi relativi ai rapporti di Gelli con la ‘ndrangheta in Calabria, dove stazionava anche Delle Chiaie (che è rimasto a vivere in Calabria, prima a Lamezia e poi a Vibo).
Di molti rapporti la Procura trovò riscontro nelle annotazioni dei numeri telefonici di rinvenuti nelle agende sequestrate a Licio Gelli.
LE DICHIARAZIONI DEI PENTITI
Visto che sono state ricostruite le tappe dei presunti contatti e punti di incontro tra Gelli e mafie (ricordiamolo non solo perché l’indagine di Scarpinato fu archiviata ma anche e soprattutto perché di conseguenza non fu ovviamente possibile, essendo mancato il momento dibattimentale, confrontare le dichiarazioni e verificarle puntualmente in aula), vediamole nel dettaglio.
Risale al 1991 – secondo la ricostruzione della Procura di Palermo – l’intensificazione di rapporti di Licio Gelli con personaggi aderenti o vicini alla Sacra corona unita, di cui riferì il collaboratore pugliese Marino Pulito, il quale dichiarò che Gelli aveva interesse ad irrobustire i rapporti (rendendosi anche disponibile per l’aggiustamento di processi in cassazione) al fine di ottenere appoggi per l’esperienza politica dei movimenti leghisti meridionali (in particolare per la Lega Meridionale).
Dalle dichiarazioni di Marino Pulito e da altre risultanze per la Procura palermitana è emerso che Licio Gelli si incontrò con esponenti della Sacra corona unita e della ‘ndrangheta al fine di ottenere il sostegno elettorale per i movimenti leghisti meridionali da lui fondati.
Dalle indagini espletate dalla Procura di Palermo, è emerso che la Lega Meridionale è stato effettivamente il movimento meridionalista più attivo proprio nel 1990-91 (e cioè nel periodo in cui nasceva il piano eversivo-secessionista), protagonista di un’intensa attività politica che la portò ad entrare in contatto anche con Vito Ciancimino e, appunto, con Licio Gelli.
Dalle dichiarazioni del pentito calabrese Pasquale Nucera è emersa, secondo la Procura di Palermo, una specifica conferma delle dichiarazioni di Filippo Barreca, ma anche di alcuni collaboranti palermitani (in particolare di Gioacchino Pennino): al più alto e ristretto livello della gerarchia della ‘ndrangheta appartengono anche elementi della massoneria deviata e – ha aggiunto Nucera – anche dei servizi deviati.
I PENTITI SICILIANI
Il mafioso pentito Leonardo Messina, nell’interrogatorio reso alla Procura di Palermo il 3 giugno 1996, confermò e precisò quanto da lui appreso sul “progetto politico-eversivo” discusso dai vertici di Cosa nostra nel corso della riunione di Enna, fornendo un racconto assai minuzioso e ricco di dettagli che ha consentito alla stessa Procura di svolgere una puntuale attività di riscontro.
In particolare, secondo Messina, la riunione di Enna del febbraio ‘92 era “l’atto finale”, in cui si era deciso di uccidere Giovanni Falcone ed era stata definitivamente deliberata la “strategia” del ‘92, all’interno di un ben più ampio disegno finalizzato alla «creazione di uno Stato indipendente del Sud all’interno della separazione dell’Italia in tre stati»; “«in tal modo, Cosa Nostra si sarebbe fatta Stato». Secondo Messina, il progetto, per finanziare il quale sarebbe stata stanziata la somma di mille miliardi (di lire ndr) , fu concepito dalla massoneria con l’appoggio di potenze straniere e coinvolgeva non solo uomini della criminalità organizzata e della massoneria, ma anche esponenti della politica, delle istituzioni e forze imprenditoriali. Più in particolare, «il progetto consisteva nella futura creazione di un nuovo soggetto politico, la Lega Sud o Lega Meridionale, che doveva essere una sorta di “risposta naturale” del Sud alla Lega Nord», ma che in realtà era «al servizio di Cosa Nostra».
Si riportano alcuni passi salienti dell’interrogatorio di Messina: «Nell’agosto del 1991…nella zona di Enna, si trovavano riuniti Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Madonia e Benedetto Santapaola.
Costoro…si trattennero nella zona di Enna sino al febbraio del ’92, data in cui si svolse una riunione formale della Commissione Regionale….Provenzano, Riina, Madonia e Santapaola, dall’agosto ’91 sino agli inizi del ’92, si trattennero nella zona di
Enna per discutere di un progetto politico finalizzato alla creazione di uno Stato indipendente del Sud all’interno di una separazione dell’Italia in tre stati: uno del Nord, uno del Centro e uno del Sud. In tal modo, Cosa Nostra si sarebbe fatta Stato.
Il progetto era stato concepito dalla massoneria. A tal riguardo, intendo chiarire che Cosa Nostra e la massoneria, o almeno una parte della massoneria, sono stati sin dagli anni ’70 un’unica realtà criminale integrata.
Il progetto aveva anche l’appoggio di potenze straniere.
Era stata stanziata la somma di mille miliardi per finanziare il progetto. Coinvolti in tale progetto erano non solo esponenti della criminalità mafiosa e della massoneria, ma anche esponenti della politica, delle istituzioni e forze imprenditoriali.
Il progetto consisteva nella futura creazione di un nuovo soggetto politico, la Lega Sud o Lega Meridionale – che doveva essere una sorta di “risposta naturale” del sud alla Lega Nord.
………………
Le riunioni che si svolsero dall’agosto in poi furono preparatorie della riunione allargata tenutasi nel febbraio ’92. Dopo tale ultima riunione…era stato deciso di uccidere Falcone.».
Ebbene, come vedete, cari lettori, gli argomenti del passato rimasti in sospeso, da approfondire e (magari!) da verificare grazie al contributo di Licio Gelli, oltre a quelli nuovi acquisiti negli anni dagli inquirenti, non mancano.
Non credo – ripeto ancora una volta – che il Venerabile si sia lasciato andare, al di là di qualche inutile annotazione, a rivelazioni tali da poter diventare protagonista narrante di un pezzo di verità di quella trattativa tra Stato e Cosa nostra sulla pelle della democrazia.
Se lo facesse bisognerebbe riscrivere almeno 30 anni di storia italiana.
r.galullo@ilsole24ore.com