La storia, a volte, si ripete.
Questa volta lungo un asse virtuale che avrebbe dovuto essere il vero Ponte sullo Stretto. Ancor più lungo: da Reggio a Palermo (o viceversa).
La progettazione del nuovo “ponte” – questa volta giudiziario – è nell’ipotesi investigativa del pm della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. Attraverso un affascinante filo logico – che sta conducendo principalmente attraverso i processi Meta e Agathos e che sta contemporaneamente portando avanti con il filone calabrese dell’indagine sulla Lega Nord e su Francesco Belsito e con la riapertura, inutilmente negata, dell’omicidio del giudice Nino Scopelliti – vuole arrivare laddove la procura di Palermo, purtroppo, si fermò nel 2001.
Per dare scacco alla cupola, al “sistema criminale” – cosa immensamente diversa dalla ‘ndrangheta che, pure, va e deve continuare ad essere colpita senza pietà – Lombardo muove sullo scacchiere le mosse con i “pezzi” più pesanti accompagnandole con quelle dei pedoni e con quelle messe a disposizione da altre indagini del passato più o meno recente come, a esempio, Bellu lavuru e Piccolo carro.
SULLE ORME DI PALERMO
Un’ipotesi investigativa che punta non solo a illuminare l’intuizione reale e realistica (ma non provata) del pm Roberto Scarpinato ma anche a riscrivere, prima che sia troppo tardi, la storia contemporanea della lotta alla ‘ndrangheta (e alle mafie).
L’ipotesi investigativa che si corrobora ogni giorno di più ma che deve e dovrà passare nelle aule dei Tribunali e reggere l’urto del tempo e dei gradi di giudizio, infatti, non rischia di travolgere solo Lombardo (che, se fallirà, sarà sottoposto alla garrota della cupola) ma rischia anche di mettere definitivamente sull’altare della mafia calabrese un distributore di santini e semi di zucca che nessuno conosceva prima di diventare, improvvisamente e per taluni, un raro concentrato del talento di Pelè, Maradona e Messi. Beninteso: un distributore di santini per la cui condanna bisogna ringraziare la Giustizia, perché quella ‘ndrangheta che costui rappresenta è viva, vegeta e mortale. Una mafia, però, “old fashioned style”. Una tessera – la più ancestrale – del “sistema criminale”.
SENZA CAPO
Ovviamente la cupola tifa per la santificazione di chi gioca con cariche e santini bruciati ed è per questo – solo per questo – che, al di là dell’insofferenza per il risvolti mediatici che ne offuscano l’immagine e il prestigio, De Stefano, Condello, Tegano e Libri tifano perché Lombardo fallisca.
E mai – come in questo momento – temono che riesca a dimostrare il contrario. E mai – come in questo momento – ci sarebbe bisogno di un procuratore capo che sia in grado di dare riparo e supporto. Ma la sede è indecorosamente vuota da un anno. Vi dice nulla questo cari lettori? Vi sembra un caso? Come no!
Un gioco talmente pericoloso che nessuno – dico: nessuno – ha la pur pallida intenzione di giocare accanto a Lombardo. Né nella magistratura né nella politica né nella Chiesa né nel giornalismo.
Chi ha anticipato Lombardo, 20 anni fa in magistratura – in quel percorso – ha fatto una brutta fine: è stato annientato (Alberto Cisterna) o è stato messo nelle condizioni di non muovere un dito. Basterebbe già solo questo per giustificare il fatto che un gruppetto di ‘ndranghetisti cialtroni anche se pur sempre criminali non sarebbe mai stato capace di ideare e attuare – da solo – strategie mafiose così raffinate. La stessa cosa pensa(va) Scarpinato delle stragi del ’92/93 di Cosa nostra. Non riuscì a provarlo, per la sua quota parte. La stessa cosa prova ora a fare la procura di Caltanissetta per quelle stesse stragi e omicidi eccellenti. Stesso obiettivo. Parallelo a quello di Lombardo sul versante calabrese, dove la cupola non ha mai fatto (finora) ricorso a stragi e omicidi. Non ne ha bisogno.
DOV E’ LA DNA?
Basterebbe questo doppio versante siciliano e calabrese che corre su binari paralleli anziché su una monorotaia a farsi una domanda logica e banale: ma la Procura nazionale antimafia dov è? Nata nella testa di Giovanni Falcone come una inossidabile cabina di regia nella lotta alle mafie, è diventata negli anni un corpaccione molle e stanco, senza energia. Scarico come un coniglietto senza pile quando ci sarebbe bisogno, invece, di un orsetto infaticabile pronto a puntare in alto. Molto in alto. Troppo?
Chi si schiera nella stampa – come il sottoscritto, da sempre proiettato verso una visione diametralmente opposta della lotta alla mafia rispetto a quella dei santini bruciati, buona per fare carriera e comunque, ripeto allo sfinimento, comunque da perseguire e combattere – paga.
E io me ne frego e continuo a schierarmi. E lo faccio a maggior ragione con questi articoli che dedico a quel “sistema criminale” che – accertato processualmente o meno che sia – non solo esiste ma è sempre più forte e raffinato. In Sicilia come in Calabria ma, oramai, in tutta Italia.
PAGINA 11
Il pm Lombardo riparte da pagina 11 della richiesta con la quale, il 21 marzo 2001, infausto primo giorno di primavera, la Procura di Palermo, attraverso il pm Roberto Scarpinato chiese e ottenne dal gip l’archiviazione nei confronti di 13 persone del procedimento che avviò nel 2008.
Mandate a mente i loro nomi: Licio Gelli, Stefano Menicacci, Stefano Delle Chaie, Rosario Cattafi, Filippo Battaglia, Salvatore Riina, Giuseppe e Filippo Graviano, Benedetto Santapaola, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Giovanni Di Stefano, Paolo Romeo e Giuseppe Mandalari.
Fili carsici che scompaiono e poi ritornano: Cosa nostra, ‘ndrangheta, massoneria deviata, eversione nera e servizi segreti deviati, accusati all’epoca di voler sovvertire l’ordine costituzionale.
TULLIO CANELLA DIXIT
Caso archiviato dunque ma, la storia, non si archivia. Resta.
E la storia, a pagina 11 di quella corposa e dolorosa, non solo per la Procura palermitana, richiesta di archiviazione, svela ciò che doveva (avrebbe dovuto) essere recepito e seguito nelle altre Procure – a partire da quella di Reggio – ma non lo fu.
Per tanti motivi. A partire da quello – dico io – che mirabilmente, splendidamente, banalmente, sintetizza il pentito siciliano Tullio Canella (culo e camicia con il boss Leoluca Bagarella) nell’interrogatorio del 28 maggio 1997: “Cian
cimino mi disse che a questo progetto (alla strategia politica di azzeramento e e destabilizzazione del Paese ndr) aveva collaborato fortemente la ‘ndrangheta calabrese. Specificò al riguardo: “devi sapere che la vera massoneria è in Calabria e che in Calabria hanno appoggi a livello dei servizi segreti”. Queste dichiarazioni di Ciancimino mi fecero capire meglio perché si era tenuta a Lamezia Terme la riunione di cui ho riferito in precedenti interrogatori e alla quale ho partecipato personalmente tra esponenti di Sicilia Libera e di altri movimenti leghisti o separatisti meridionali, riunione alla quale erano presenti anche diversi esponenti della Lega Nord”.
Segnatevi questi rivoli carsici che scompaiono e poi ritornano: massoneria…’ndrangheta…servizi deviati…
IL “SISTEMA CRIMINALE”
La Procura di Palermo scrisse a pagina 11 che il “sistema criminale” – che avrebbe dovuto azzerare il quadro politico istituzionale nazionale vigente fino al 1992 e destabilizzare il Paese per agevolare un golpe – “non ha costituito oggetto di questo procedimento nella sua interezza, essendo ovviamente estraneo all’oggetto delle investigazioni di questo Ufficio (anche per difetto di competenza) l’indagine sull’intero complesso delle organizzazioni mafiose operanti in Italia, delle altre organizzazioni illecite ad esse collegate e delle relazioni esterne di ciascuna di esse. Ciò che ha costituito oggetto di specifica verifica è, invece, il ruolo svolto, non solo da Cosa nostra ma anche da entità esterne alla stessa, nell’elaborazione della strategia del terrore messa in atto dal 1992, verificando, in particolare, se pezzi di questo sistema criminale abbiano costituito e/o fatto parte di un’associazione finalizzata all’eversione dell’ordine costituzionale mediante atti violenti”.
Il “sistema criminale”, dunque “non è stato esaminato nella sua interezza”. Quel sistema che, si legge testualmente a pagina 11, avrebbe dovuto “prendere il potere nel modo più idoneo alla realizzazione degli interessi illeciti mafiosi”.
LO SBAGLIO SU NINO SCOPELLITI
C’è un errore – a mio modesto parere – della procura di Palermo che diverrà successivamente frutto di incomprensioni ma anche di salvacondotti giudiziari. Un errore sul primo, vero, inequivocabile e trasparente atto di “azzeramento del quadro politico-istituzionale” e “destabilizzazione del Paese” a opera del “sistema criminale”.
La Procura di Palermo segna la prima tappa del disegno del “sistema criminale” nell’uccisione a Palermo, il 12 marzo 1992, alla vigilia delle elezioni politiche, dell’onorevole Salvo Lima, eurodeputato democristiano e capo della corrente andreottiana in Sicilia.
Errore. Quell’omicidio fu la seconda tappa: la prima fu quella dell’omicidio a Piale, il 9 agosto 1991, del giudice in Cassazione del maxiprocesso a Cosa nostra Antonino Scopelliti. Fu quell’omicidio a sconvolgere – per sempre nella vita democratica contemporanea – gli equilibri tra politica, mafie, massoneria deviata e Stato deviato. Questo omicidio l’ho analizzato e sviscerato sul Sole 24 Ore e nel post – in archivio – del 9 agosto 2012 e ad esso, dunque, rimando.
Una cosa, una sola cosa basti qui richiamare: come si intuisce dalle deposizioni di diversi pentiti, a partire dal calabrese Nino Fiume, culo e camicia con il boss Peppe De Stefano, quell’omicidio fu il capolavoro strategico-politico proprio della cosca De Stefano. ‘Ntu culo a Cosa nostra. Che poi si fregò da sola con le stragi del ’92 e del ’93: un suicidio in agonia al quale assistette godendo a più non posso la trimurti De Stefano/Condello/Tegano con l’aggiunta del custode delle regole: Libri.
La repressione dello Stato si sarebbe – da quel momento in avanti – spostata su Cosa nostra lasciando campo libero al rampantismo politico ed eversivo (in primis) dei De Stefano.
Non perdete mai di vista cari lettori questo aggettivo: eversivo. Il cuore dei De Stefano batteva e batte a destra, laddove batterà anche il cuore delle “scommesse” politiche e professionali della cosca De Stefano. Poche perse. Molte vinte. Altre in continua ascesa. Quella destra eversiva che anche in Sicilia aveva maestri e alunni.
L’EVOLUZIONE DELL’HOMO MAFIOSO
Quel maledetto “sistema criminale”, in realtà, continua ad agitare le notti di Roberto Scarpinato. Così come le mie e di (pochi?) altri.
L’attuale procuratore generale presso la Corte di appello di Palermo, a Bruxelles, il 29 marzo 2011, nell'ambito delle discussioni al Parlamento Europeo "Verso una strategia europea per combattere il crimine organizzato transnazionale" presentò una relazione di profilo alto, altissimo (si vedano i miei post in archivio del 6 e 11 aprile 2011).
Scarpinato dipinse in un capoverso-capolavoro il “sistema criminale”. Tutto nasce – in questa evoluzione al contrario del genere umano che dunque diventa involuzione – dalla combinazione tra abuso del potere pubblico e abuso del potere privato delle mafie. E’ la nuova formula criminale vincente. “In Italia il fenomeno in quest’ultimo ventennio – affermò Scarpinato di fronte a un auditorio, presumo, allibito – si è sempre di più aggravato anche perché in vari modi la discrezionalità politica-amministrativa è stata dilatata, sottratta a controlli da parte di organi superiori e resa insondabile da parte della magistratura. Si è creata così un’amplissima zona di opacità nel settore pubblico che offre ampia copertura ad una vertiginosa crescita dell’illegalità”.
E la magistratura ben poco ha potuto per incidere nella piaga della corruzione, “stante l’omertà granitica che domina nel mondo dei colletti bianchi”. Se qualcosa ha fatto è stato solo (o quasi) grazie alle intercettazioni telefoniche ed ambientali.
La corruzione è divenuta il principale terreno di penetrazione delle mafie nelle istituzioni e nell’economia, oltre che il principale luogo nel quale si costruiscono quelle alleanze tra politici, amministratori, imprenditori e mafiosi di élite che danno vita ai “sistemi criminali”.
Nel panorama italiano, spiegò Scarpinato, i “sistemi criminali” dal Nord al Sud “stanno divenendo i nuovi soggetti emergenti del panorama criminale nazionale, soppiantando progressivamente le mafie tradizionali nei segmenti alti del mercato illegale, la cui gestione richiede apporti di competenze diversificate e multilivello”.
Alle mafie tradizionali sono riservati i rami di attività a più alto rischio penale – traffico di stupefacenti, estrazione violenta di risorse dal territorio t
ramite le estorsioni – nonché i settori del mercato a bassa tecnologia o in via di esaurimento, come quello edilizio.
Il nuovo capitalismo mafioso si presenta con il volto rassicurante di manager e colletti bianchi che offrono alle imprese una serie di servizi illegali molto appetibili perché consentono di realizzare una serie di ingenti risparmi sui costi di produzione e di lucrare extraprofitti.
Sono sempre più numerose le inchieste che dimostrano la crescita e la diffusione in quelle regioni dei “sistemi criminali”, nati dallo stabile matrimonio di interessi tra il mondo della corruzione politico-ammnistrativa, quello imprenditoriale e quello mafioso. I media, disse Scarpinato, utilizzano varie espressioni per definire questo nuovo fenomeno criminale: cricche, P3, P4, comitati di affari ma “al di là della varietà dei termini e delle vicende, l’elemento strutturale costante è la presenza simultanea in ciascuna di tali strutture criminali di esponenti politici, pubblici amministratori, uomini d’affari e faccendieri collegati alle mafie, tutti concordi nell’utilizzare influenza politica, potere amministrativo, capitali legali e capitali di origine mafiosa, per arricchirsi nei più svariati campi, distorcendo le regole del mercato e della pubblica amministrazione”.
Sicché oggi non si è più in grado di stabilire se la vera emergenza nazionale italiana sia costituita dalle mafie oppure dalla corruzione, o ancora dal mix micidiale tra l’una e l’altra. Se non è zuppa è pan bagnato ma la sostanza non cambia: chi governa le principali leve di questo Paese (e non solo) è frutto di un patto diabolico tra gli attori del “sistema criminale”, tra gli homines un tempo (solo) mafiosi. Che bella consolazione sapere che non si chiama più mafia.
Lombardo lo ha capito bene e da lì che è ripartito.
E noi? E noi lo accompagniamo nella ricostruzione delle tessere del “sistema criminale”.
Anche domani e per i giorni a venire.
1 – to be continued
r.galullo@ilsole24ore.com