“Ma perché mai, Roberto, la mafia dovrebbe votare o dettare la linea alle elezioni politiche?” Ha ragione, con qualche distinguo, Alberto Cisterna, ex numero due della Procura nazionale antimafia prima di essere relegato a Tivoli, quando fa questa riflessione a poche ore dal voto alle politiche 2013.
Già: perché mai –con questo sistema elettorale che cancella le preferenze – le mafie dovrebbero spremersi più di tanto per le votazioni politiche? Certo, come abbiamo visto nel post che ho pubblicato ieri, non vuol dire che – soprattutto al Senato dove in molte regioni del Sud sono state create liste ad hoc – le organizzazioni mafiose non abbiano visto di buon grado alcuni candidati ma – vivaddio – spremersi è un’altra cosa.
Resto convinto che – in attesa di un nuovo assetto politico che in questo momento è lungi dall’essere ipotizzabile – le mafie, come ho scritto ieri, brindino all’ingovernabilità del Paese. Con due specifiche importanti che, però, aggiungo rispetto a quel che ho scritto ieri, affinchè il mio pensiero sia compitamente espresso: 1) sempre che questa instabilità non contagi il territorio e 2) sempre che – in primis – questa instabilità politica sia destinata a durare poco.
Le mafie, infatti, hanno sempre avuto bisogno di una politica “garantista”, che possa permettere di scendere a patti. Quando così non è – si ricordi quanto avvenne negli anni 91/93 con le stragi mafiose – irrompono sulla scena drammaticamente per “forzare” o creare nuovi assetti.
Sono così convinto che oggi le mafie – soprattutto Cosa nostra, indebolita da centinaia di arresti e colpi al patrimonio e la ‘ndrangheta, alla quale la strategia stragista non è mai appartenuta – non sarebbero in grado di replicare il copione degli anni Novanta e così si accontentano – ma solo momentaneamente – della “baraonda” nella quale continuano a barcamenarsi sapendo che possono comunque contare su amici in Parlamento, in attesa di tempi migliori. In attesa di nuovi – e duraturi – interlocutori. In attesa di un “sistema” e non di singoli “amici”.
Alle mafie – con questo sistema elettorale, ripeto – giova concentrarsi sul territorio. E’ alle elezioni amministrative (regionali, provinciali e comunali) dove la preferenza conta e conta molto, che orientano i propri sforzi, ricevendo ormai file di aspiranti e non dovendo più da anni rincorrere loro i candidati.
Non è un caso – lo ricordo al volo – che negli anni Novanta la Procura di Palermo mise sotto la luce (ma non riuscì a provarlo) il piano secessionista fomentato dalle mafie del Sud. Piccolo è meglio: il territorio si può controllare, orientare, dirigere e il governo della cosa pubblica sarebbe (è) sempre più inquinato.
Anche la rilevazione campionaria che ho condotto presso alcune carceri italiane, testimonia quanto ho scritto: la mafia non ha votato. Non vuol dire che abbia dettato la linea. Semplicemente non ha fatto richiesta di voto consolidando – anche in queste votazioni politiche – un trend che prosegue da tempo.
C’è un'altra premessa da fare: per coloro che vengono condannati per mafia il giudice può stabilire la pena accessoria della cancellazione momentanea del diritto al voto e, dunque, nella conta dei numeri questo va sempre tenuto presente.
Quel che sorprende – in generale – è che la popolazione detenuta (anche per reati comuni) si è tenuta alla larga dalle urne che sono state allestite in sezioni speciali all’interno degli istituti penitenziari.
ALTA SICUREZZA
Nelle strutture che ospitano molti mafiosi, ai quali spesso viene applicato il regime del carcere duro, la scheda è stata quasi sempre lasciata nel seggio. A Parma, ad esempio, ultimamente salita agli onori della cronaca per la presenza di Bernardo Provenzano, soltanto 3 detenuti sui potenziali 389 italiani che potevano esercitare il diritto al voto, ha scelto di entrare in cabina.
A Tolmezzo (Udine) dove sono o sono stati reclusi – tra le altre cose – importanti pentiti di mafia, su una popolazione complessiva detenuta di 97 persone, soltanto 8 hanno votato.
Nel carcere di Terni – dove Provenzano è stato detenuto prima del trasferimento – su 196 detenuti italiani aventi diritto al voto, solo 9 hanno fatto richiesta della scheda elettorale.
Risalendo la penisola, a Opera (Milano), dove sono molti i mafiosi reclusi (di Cosa nostra e ‘ndrangheta) in 21 hanno votato su una popolazione complessiva (anche per reati comuni, dunque) di 954 italiani.
Nel carcere palermitano di Pagliarelli hanno votato in 10 su 1.047 detenuti italiani.
A Tempio Pausania (nella provincia sarda di Olbia-Tempio) su 114 detenuti (soprattutto per reati di mafia, visto che insieme al carcere di Nuoro, nell’ultimo mese, ha assistito al trasferimento di molti condannati), nessuno ha votato. In 23 hanno votato nel carcere di Vigevano (Pavia) tra i 296 reclusi.
REATI COMUNI
I dati sopra evidenziati nelle strutture che ospitano molti detenuti al 41 bis o in alta sicurezza tengono presente – dunque – anche i detenuti per reati comuni (più o meno gravi).
Se l’analisi si sposta sulle sole carceri che ospitano la popolazione che si macchia di reati non mafiosi, la musica non cambia: in pochi hanno votato.
A San Vittore (Milano), ad esempio, su 614 italiani aventi diritto al voto, solo 76 hanno ritirato la scheda elettorale. A Bollate (Milano) hanno votato in 59 su 816 reclusi.
Se si scende in Sicilia e per la precisione ancora a Palermo, nel carcere dell’Ucciardone, si registra l’affluenza più alta: 112 votanti su 435 aventi che potevano esercitare il diritto.
r.galullo@ilsole24ore.com