Il comunicato stampa odierno della questura di Reggio Calabria è impeccabile: il Tribunale dei minorenni della città in riva allo Stretto ha disposto l’invio presso una comunità di un adolescente inserito in una famiglia appartenente ad una delle principali consorterie mafiose della provincia reggina, affidandolo di fatto e di diritto ai servizi sociali. Il Tribunale ha disposto e l’ufficio minori della Polizia di Stato ha provveduto.
Il provvedimento del Tribunale dei minorenni, confermato dalla Corte d’appello, ha una motivazione semplice come acqua sorgiva: tentare di recuperare i giovani, costretti a subire il pregiudizio dall’ambiente “mafioso” di provenienza, attraverso un percorso di rieducazione sociale. “Un concreto contributo – si legge nel comunicato stampa della questura retta da Guido Longo – volto ad arginare in via preventiva il fenomeno mafioso agendo sulle condizioni di vita dei giovani ed offrendogli una opportunità alternativa”.
Il decreto d’affido, chiarisce ancora la questura, non riveste carattere di afflittività e la sua genesi non è data dalla semplice appartenenza del minore ad una famiglia mafiosa ma è conseguenza di “una ponderata valutazione di una situazione di disagio e di devianza del minore per rimediare alla quale in assenza di validi modelli educativi di riferimento, viene offerta un’alternativa culturale all’adolescente per evitarne una definitiva strutturazione criminale”.
L’esecuzione del provvedimento non deve essere stata facile. Lo si capisce dal tono del comunicato stampa che richiama “situazioni di criticità collegate al difficile contesto socio ambientale manifestamente ostile al rispetto delle regole e della legalità”.
Questa notizia – delicatissima anche perché non è difficile immaginare che la famiglia mafiosa farà di tutto per rendere difficile e complesso il percorso di (ri)educazione del figlio – non giunge nuova. Il Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria da alcuni mesi sta adottando una linea dura per strappare ad un destino comunque mortale i minori delle famiglie di ‘ndrangheta. Il bravo collega Luigi Ferrarella, il 5 settembre 2012 raccontò sul Corriere della Sera che i giudici Questo quadro induce i giudici Roberto Di Bella e Francesca Di Landro, su richiesta del pm minorile Francesca Stilla, emise «un provvedimento limitativo della potestà genitoriale» e nominò per un 16enne un curatore speciale, visto «il conflitto di interessi tra lui e la madre incapace di indirizzarlo al rispetto delle regole civili e tutelarlo». Lo stesso Tribunale ritenne «indispensabile affidare il minore al servizio sociale per inserirlo subito in una comunità da reperirsi fuori dalla Calabria, i cui operatori professionalmente qualificati siano in grado di fornirgli una seria alternativa culturale». Per i giudici minorili, infatti, «è l'unica soluzione per sottrarre» il 16enne «a un destino ineluttabile, e nel contempo consentirgli di sperimentare contesti culturali e di vita alternativi a quello deteriore di provenienza», nella speranza «possa affrancarsi dai modelli parentali sinora assimilati». Obiettivo che il Tribunale persegue ricorrendo a norme che vanno dall'articolo 25 del regio decreto del 1934 all'articolo 330 del codice civile, sino alla Convenzione di New York «nella quale è sottolineato il principio che la famiglia deve educare il minore ai principi di pace, tolleranza, dignità e solidarietà».
Bene dunque il Tribunale dei minori di Reggio Calabria e benvengano quei piccoli ma decisi passi contro la cultura mafiosa che qui è radicatissima. Piccoli ma decisi passi come quelli che, sul Quotidiano della Calabria di giovedì 17 gennaio, racconta il collega Pasqualino Rettura.
La storia è quella della moglie di un presunto killer di Lamezia Terme, che avrebbe agito direttamente agli ordini della cosca Giampà. La moglie, che dichiara al collega di essere stata all’oscuro del presunto passato criminale del marito arrestato a Novara, dice testualmente: «…non ho più avuto colloqui con lui fino a qualche giorno prima di Natale quando in carcere gli ho comunicato la mia decisione di lasciarlo. Lui non era d'accordo, mi diceva di essersi pentito affinché io e lui ricominciassimo un'altra vita in un'altra città. Ma non ho voluto seguirlo. Sono tornata a Lamezia chiedendo l'annullamento del matrimonio dalla Sacra Rota, e credo che me lo concederanno perchè lui mi ha mentito. Voglio solo rifarmi un'altra vita anche perché io non ho nulla da nascondere e non ho motivo per andarmene dalla mia città e lasciare la mai famiglia. Sono stata ingannata».
Con storie come queste la famiglia in Calabria può forse sperare di tornare ad essere luogo di valori di vita e non di morte.
r.galullo@ilsole24ore.com