Il 18 aprile, con l’ennesima operazione (Califfo) del Ros dei Carabinieri e del comando provinciale, è stato disposto dalla Procura l’arresto di sette persone e il sequestro di due società di trasporti per una valore di oltre 1,5 milioni.
Questa è cronaca. Chi vive in Calabria ne ha appreso notizia. Chi non ci vive avrà faticato a trovarla. Ormai il numero di indagini, inchieste e arresti al Sud viaggia al ritmo di una al giorno. Ci si perde e questo dà l’idea – da una parte – dello straordinario lavoro di magistratura e Forze dell’Ordine e – dall’altro – della diffusione capillare della criminalità organizzata.
Per tutti racconterò ciò che ha colpito la curiosità di questo umile e umido blog.
Un dettaglio, sì, ma sapete com è: questo umile e umido blog ama i dettagli che svelano tanto (ma proprio tanto) della cultura e dell’ignoranza mafiosa.
L’ordine di arresto colpisce – tra gli altri – Giuseppe Pesce, latitante dall’aprile 2010 e boss della cosca di ‘ndrangheta. La sua famiglia – a Rosarno – è servita e riverita come si deve – nell’omertosa cultura calabrese – a una famiglia di mafia.
Orbene Giuseppe – per volere del fratello Francesco, che invece si trova ar gabbio –
doveva essere “incoronato” reggente e successore nelle attività criminali dell’allegro
nucleo familiare.
E come “battezza” il testone? Se non ci fosse da ridere bisognerebbe mettersi a piangere.
La famiglia Pesce – che non a caso rappresenta quella che amo definire la ‘ndrangheta pecoreccia, quella fatta di traffici di droga e armi, che uccide e fa uccidere ma che è assolutamente esclusa dal tavolo buono della borghesia mafiosa, fatto invece di grembiuli sporchi, politici, pezzi deviati dello Stato, professionisti e pezzi da 90 di quelle che definisco “cosche manageriali” – ricorre a un “pizzino”.
Ma si, a uno di quei foglietti bianchi che sono diventati famosi in tutto il mondo dopo l’arresto di Bernardo Provenzano. Oh sia chiaro, sono stati un mezzo di comunicazione dei mafiosi per decenni e – come descriverò – lo sono ancora ma la società che si sorprende a corrente alternata delle mafie perché è tutta presa da tette e culi in tv lo ha scoperto da poco.
Torniamo a noi.
Dar gabbio Francesco ha un pallino fisso. Come si legge nell’ordinanza “il giovane boss doveva legittimare criminalmente l’unico maschio libero della sua famiglia – il fratello Giuseppe, latitante – e, quindi, provvedeva a promuoverlo”.
E cosa fa il nostro? Sul pizzino – che verrà intercettato in carcere dalla Polizia penitenziaria l’11 agosto 2011:– scrive “fiore per mio fratello”.
Si, si proprio cosi: “fiore per mio fratello”. Una frase che svela – secondo investigatori e inquirenti – la promozione al grado di capobastone del fratello Giuseppe.
Il termine “fiore”, nella simbologia mafiosa, è normalmente collegato ai gradi della gerarchia e viene usato come sinonimo del termine “dote”, quando un affiliato ne acquista una superiore. Infatti – annota la polizia giudiziaria – si usa dire che l’appartenente alla ‘ndrangheta che propone l’attribuzione di una dote superiore per un altro affiliato è proprio colui che offre un “fiore”.
Nella frase “fiore per mio fratello” inserita nel pizzino si celava, pertanto, l’ordine di avanzamento di grado gerarchico (‘ndranghetista) di Giuseppe Pesce, nato nell’80, necessario per il passaggio di consegne dal giovane boss detenuto Francesco, nato nel ’78, al fratello ancora latitante.
Ma quel pizzino è autentico? E vuole davvero trasmettere un messaggio altrettanto autentico?
La risposta viene data personalmente da Francesco Pesce e la si ricava da una precedente dichiarazione estratta da un colloquio carcerario sottoposto ad intercettazione il 16 gennaio 2009 con il fratello Giuseppe, laddove commentando con lui il contenuto delle cose che era solito scrivere per abitudine, si esprimeva così: “Io quando una cosa me la scrivo è quella… con certezza”.
Ed è talmente vero che – dopo il sequestro del pizzino – tenterà in tutti i modi di farlo distruggere, al punto da indurlo a dire: “datemi stu biglietto ca già sugnu rovinato, vi giuru c’a u sciancu davanti a vui”…”.
DA REGGIO A NAPOLI
Se da Reggio si sale su fino a Napoli (in verità bisogna spingersi fino a Novara, dove è detenuto il boss dei Casalesi Michele Zagaria) cambia poco. Al massimo un po’ più di sale in zucca da parte dei macellai della camorra che hanno tentato – invano -. di spedire una lettera al capo dei macellai, il superboss Zagaria.
Ventisei-righe-ventisei cifrate e cariche di morte per i pm della Procura che hanno mandato in galera lui e stanno da anni sul collo dei Casalesi, sequestrando finora oltre 2 miliardi di beni immobili e arrestando decine e decine di affiliati.
Nella lettera – anonima e scritta al computer – ci sono messaggi ambigui come il fatto che il padrino casalese, detenuto in isolamento a Novara, è «oppresso da un’ingiustizia».
Una lettera che fa poi riferimento alla «Norma», ai loggioni teatrali e ai copioni, ma anche al «bar di Antonio», a «zio Nicola che ha preso nota di tutto» e a una «macchina riempita» di «frutta fresca». Immagine, quest’ultima, che rimanda alle videoriprese del 2009 sull’accordo tra casalesi e Cosa Nostra nel mercato all’ingrosso dell’ortofrutta di Fondi. Si vedevano camorristi tirar fuori, dall’interno dei camion di frutta, cassette cariche di armi.
Bene ha fatto il comitato per l’ordine e la sicurezza di Napoli a innalzare il grado di sicurezza per otto magistrati: il procuratore aggiunto antimafia Federico Cafiero de Raho, i sostituti del pool "anticasalesi" Antonello Ardituro, Giovanni Conzo, Francesco Curcio, Catello Maresca, Alessandro Milita, Cesare Sirignano e, infine, il pm Vincenzo D’Onofrio, applicato ad altre inchieste anticamorra.
Beh, è tutto.
No. Tutto no. Dimenticavo la cosa più importante. Quella che mi ha colpito. E lo faccio attraverso una domanda: chi di voi scriverebbe, di proprio pugno, su un bigliettino che può essere intercettato, la promozione di un fratello a reggente di una cosca calabrese? Chi di voi sarebbe così intelligente da spedire una lettera piena di messaggi cifrati ad un capo camorrista recluso in un carcere di alta sicurezza, in isolamento, la cui posta viene obbligatoriamente intercettata, letta
e passata la setaccio?
Suppongo nessuno di voi. Nessuno di noi. E allora forse sarà il caso di smettere di pensare che dietro queste cosche pecorecce si celino menti raffinatissime. Quelle vanno cercate altrove, nei salotti buoni di Reggio Calabria, di Roma, Napoli e di Milano. Li siede la cupola mafiosa che governa la Calabria e – sempre più – la Lombardia, la Campania e l’Italia.
Loro non cadrebbero mai in errori così marchiani. Forse perché sono ancora a piede libero e cariche e gerarchie riescono ancora a godersele.
In Calabria sicuramente all’ombra di qualche loggia. O nel segreto di qualche memoria informatica a Milano. Ma ora – finalmente e dopo la “liberazione” di Reggio – il fiato delle Procure di Reggio Calabria e di Milano – comincia a soffiare sul collo della mafia borghese che ha deciso vita, morte e miracoli di molte carriere. Anche (e soprattutto) politiche e nell’amministrazione della Giustizia.
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