Tassi & usura / Marchiorello (ex Antonveneta), Geronzi (ex Banca di Roma) e Abete (Bnl) al test della Cassazione

In calce alle 18 pagine del ricorso ci sono una data, un timbro e una firma.

La data: 9 novembre 2010.

Il timbro: Procura generale della Repubblica di Reggio Calabria.

La firma: quella dell’avvocato generale Francesco Scuderi, di fatto il vice del Procuratore generale Salvatore Di Landro.

Il Procuratore, con quel ricorso di 18 pagine, ha deciso di ricorrere in Cassazione affinchè annulli la sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria del 2 luglio 2010, per i capi riguardanti gli imputati Dino Giovanni Maria Marchiorello, Cesare Geronzi e Luigi Abete.

In quella data i tre manager bancari sono stati assolti perché il fatto per i quali erano imputati “non costituisce reato” per mancanza di dolo. Mesi prima, correva l’8 novembre 2007, il Tribunale di Palmi li aveva assolti “per non aver commesso il fatto”.

Ma i tre di cosa dovevano rispondere? A seguito di rinvio a giudizio del Gup di Palmi, erano stati chiamati a rispondere di una serie di reati di usura che sarebbero stati commessi tra il 1997 e fine 2002 in relazione a vari rapporti di apertura di credito in conto corrente del Gruppo De Masi (che opera a Rizziconi, nella Piana di Gioia Tauro, con circa 250 addetti) con Banca Antoniana Veneta, Banco di Roma e Banca nazionale del lavoro. Veniva contestata l’applicazione di tassi usurari nella forma aggravata in quanto praticata nell’ambito di un’attività bancaria ai danni di una società in stato di bisogno e che svolgeva attività imprenditoriale.

Ciò che veniva addebitato ai tre manager (Abete è ancora in carica, Geronzi è ora presidente di Generali) e ai preposti alle singole filiali era sia l’applicazione di tassi superiori a quelli previsti dalla legge per ciascun periodo temporale preso in considerazione, sia l’utilizzo abnorme della commissione di massimo scoperto (cms), tale da determinare un significativo incremento del tasso di interesse in concreto richiesto (e corrisposto).

Detto delle pronunce in primo grado e in appello, vediamo ora perché il Procuratore generale ha impugnato la sentenza della Corte, ritenendola viziata “da erronea applicazione della legge penale, mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione”.

In parole povere, come si può leggere a pagina 18 del ricorso, per il Procuratore generale, la Corte d’appello “avrebbe dovuto ritenere sussistente nella condotta degli imputati Marchiorello, Geronzi e Abete il dolo richiesto per la configurabilità del reato di usura e di conseguenza affermare la loro responsabilità in ordine ai reati contestati, riformando in tal senso la sentenza di primo grado”.

Per arrivare a tanto il Procuratore generale affronta alcuni punti focali tutti strettamente collegati: la configurabilità di colpa o dolo; la soggettività e/o l’oggettività del reato; l’ambiguità o difficile “lettura” delle circolari e delle istruzioni della Banca d’Italia; l’entità del superamento del tasso soglia; la congruità del sistema dei controlli e di quello informatico.

La sentenza impugnata – scrive nel ricorso presentato in Cassazione il 13 novembre dall’avvocato Giacomo Saccomanno che rappresenta il Gruppo De Masi, che dunque aggiunge il proprio ricorso a quello del Procuratore generale – ha ritenuto la sussistenza dei fatti di usura contestati, la loro commissione da parte dei tre presidenti degli istituti di credito interessati ma ha ritenuto non integrati i relativi reati in quanto ricorrente il dubbio sull’integrazione dell’elemento soggettivo richiesto, il dolo”.

Dunque, specificato che il reato è stato comunque riconosciuto, i ricorsi in Cassazione (come vedremo subito dopo non solo della Procura e del Gruppo De Masi ma anche dei tre manager-imprenditori) si giocano sulla configurabilità o meno del dolo.

 IL RICORSO DEI TRE MANAGER

Il 10 novembre l’avvocato Francesco Vassalli, che difende Cesare Geronzi, ha presentato anch’esso ricorso in Cassazione. Nelle 23 pagine del ricorso si legge, tra le altre cose, che la Corte “avrebbe dovuto dichiarare inammissibili i motivi di appello per difetto di specificità riguardo l’imputazione e i motivi della sentenza impugnata…”. Il legale di Geronzi sottolinea poi la “contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione risultante dagli atti del processo”.

A essere messa sotto la lente è poi la “contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato e dagli atti del processo – Inosservanza e/o erronea applicazione dell’articolo 644 del c.p., dei decreti trimestrali del ministero del Tesoro e delle istruzioni emanate dalla Banca d’ Italia per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura”.

Il 12 novembre 2010 anche l’avvocato Roberto Ramponi, che difende Giancarlo Abete, ha presentato ricorso in Cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza più o meno per le stesse ragioni e ancora in 23 pagine: 1) per travisamento della prova e per manifesta illogicità; 2) per la violazione del principio della immutabilità dell’accusa; 3) per erronea interpretazione ed applicazione dell’articolo 644 del codice penale, illegittimità costituzionale del delitto di usura per violazione dei principi di riserva di legge e di determinatezza-tassatività della fattispecie incriminatrice, per travisamento della prova e per illogicità manifesta.

Al momento in cui scrivo non ho notizia del ricorso di Marchiorello, ex presidente di Banca Antonveneta, ma tutto lascia presagire che in Cassazione sia stato depositato.

Non resta che attendere gli sviluppi di questo tormentone processuale che vale la pena di seguire soprattutto per i risvolti nei rapporti tra erogazione del credito e sviluppo imprenditoriale al Sud.

IL TAR E L’IMBARAZZANTE SILENZIO DELLA REGIONE

Una storia ancor più interessante alla luce della sentenza (nel merito) del 16 gennaio del Tar di Reggio Calabria che ha riconosciuto la legittimità del Gruppo De Masi al mutuo agevolato previsto per le imprese soggette a usura. Nel 2006 all’imprenditore furono rifiutati 3,6 milioni dal Commissario straordinario di governo per il coordinamento delle iniziative antiusura e antiracket. Lo stesso organo del ministero dell’Interno dovrà ora riesaminare celermente la pratica. Ma chi restituirà a De Masi i quattro anni persi, la perdita di tempo nell’inseguire avvocati e giudici e, soprattutto, il mancato introito di una somma che avrebbe potuto rendere inutile il piano di ristrutturazione aziendale necessario per lo stato di crisi nella quale era entrato?

Ma chi non ne vuole sapere di accelerare le pratiche è proprio la Regione Calabria, chiamata dallo stesso gruppo De Masi a esaminare da oltre un anno la ristrutturazione dell’azienda. La legge consente – per la salvaguardia dei piani occupazionali e per le aziende che versano in uno stato di crisi – di ottenere alcuni benefici. Strumenti che sono utilizzati da tutte le aziende del Nord per la ristrutturazione. De Masi ha ingaggiato professionisti di primo livello (non calabresi: un grave errore di strategia?) per redigere piani industriali, progetti di ristrutturazione. Insieme a tutte le organizzazioni sindacali e con incontri congiunti nei tavoli Istituzionali, come la Prefettura, anche recentissimi, la situazione è stata varie volte discussa.

E’ passato più di un anno è la Regione non muove foglia. Non lo trovate imbarazzante. Che il problema sia politico, vale a dire che risieda nel fatto che questo imprenditore si rifiuta di ricorrere agli amici e agli…amici degli amici?

r.galullo@ilsole24ore.com

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