Cari lettori, da ieri sto analizzando le 25 pagine di memoria depositate il 26 settembre dal procuratore generale Roberto Scarpinato e dal sostituto Luigi Patronaggio, con le quali chiedono la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale del cosiddetto processo Mori-Obinu per fatti, avvenimenti e prove che non potevano essere conosciuti dal collegio giudicante che in primo grado il 15 luglio 2013 ha assolto (con sentenza impugnata dalla procura) Mario Mori e Mauro Obinu dall’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia e che ora, invece, secondo la stessa pubblica accusa, lo sono e devono essere resi noti e (ri)dibattuti.
Come già mi accadde con l’analisi (più volte riproposta su questo blog) dell’indagine “sistemi criminali” della quale nel 2001 la stessa Procura (pm lo stesso Scarpinato) chiese all’ufficio Gip l’archiviazione, anche la lettura di questa memoria mi provoca dolore. Non so come giudiziariamente si snoderà il processo “Mori-Obinu” o quello sulla trattativa Stato-mafia, ma quel che so per certo è che i pm palermitani hanno scoperchiato un pentolone putrescente nel quale appare chiaro, chiarissimo che l’involuzione dello Stato è arrivata (a mio modesto giudizio) ad un punto di non ritorno.
IL PONTE CON LA CALABRIA
Solo e isolato (salvo poche eccezioni giornalistiche e mi riferisco a quelle pochissime componenti totalmente indipendenti nella ricerca della verità) da anni sto ripetendo che lo stragismo degli anni 90, la smania trattativista e l’inquinamento profondo della politica e delle Istituzioni non possono essere lette senza leggere contemporaneamente quanto accade (fin dagli anni Settanta) tra le due rive dello Stretto.
Palermo e Reggio Calabria sono le due facce della stessa medaglia e non va mai, mai dimenticato che nel 2001 Scarpinato chiamò in primis proprio la Procura della Repubblica di Reggio Calabria a fare fino in fondo la propria parte. Quel che Scarpinato non sapeva era che il tessuto connettivo della società calabrese, inesistente e corrotto in ogni dove, non poteva permettere quel lavoro che in Sicilia era (ed è) invece possibile. In Calabria la ricerca delle altre “mezze verità” è affidata a singoli (magistrati, giornalisti, uomini e donne) che, ancor prima che con il rischio della morte fisica, debbono fare i conti con la peggiore delle morti perenni: la delegittimazione del proprio lavoro. Oggi, tra i magistrati in Calabria, quel rischio lo corrono in primis Federico Cafiero De Raho, Giuseppe Lombardo e Francesco Curcio ma c’è da dire che, questa volta, altri uffici dello stesso Palazzo di Giustizia stanno riscoprendo il gusto di lavorare alla ricerca di qualcosa di diverso che non siano solo i custodi della tradizione di Polsi o le mezze tacche della politica.
Che le due sponde dello Stretto debbano annullare le distanze è testimoniato, ancora una volta, dalla lettura della memoria della Procura generale.
Nella ricerca dei punti di contatto del prefetto ed ex direttore dei Ros e del Sisde Mario Mori, Scarpinato e Patronaggio ricordano i rapporti con Paolo Bellini, un soggetto, si legge a pagina 11 della memoria, «già appartenente alla ‘ndrangheta e vicino all’eversione nera».
Un rapporto molto complesso che passa attraverso il mafioso Antonio Gioè (sul quale tornerò in settimana con servizi appositamente dedicati), uomo d’onore in contatto con esponenti dei servizi segreti, protagonista della stagione stragista del 1992, depositario dei segreti piani politici sottostanti alla medesima strategia che coinvolgevano soggetti esterni a Cosa Nostra.
Gioè si suicidò in circostanze non del tutto chiarite nel carcere romano di Rebibbia nella notte fra il 28 e il 29 luglio 1993.
BELLINI A ENNA
L’istruzione svolta dalla Procura di Palermo ha evidenziato che Bellini era in Sicilia in concomitanza delle riunioni della cupola regionale di Cosa Nostra del 1991 tenute ad Enna e finalizzate a disegnare la strategia stragista del ‘92/’93.
Bellini è stato presente ripetutamente a Palermo incontrandosi con Gioè dal quale aveva appreso circostanze rilevanti sul piano stragista e sul progetto di eseguire attentati ai beni culturali fuori dalla Sicilia.
INFILTRATO
Ebbene la Procura generale di Palermo intende provare che Bellini, tramite il maresciallo dei Carabinieri Roberto Tempesta, di cui era confidente ed infiltrato nell’ambito di una attività volta al recupero di opere d’arte trafugate, informò Mori di quanto stava accadendo e che il medesimo omise di svolgere qualsiasi attività investigativa per disarticolare quella componente di Cosa Nostra vicina a Gioè, che in quel momento annoverava i più pericolosi latitanti mafiosi dell’ala stragista di Cosa nostra, e non abbia fatto nulla, almeno da quanto è dato sapere dagli atti processuali, per prevenire le stragi del ‘93 di Roma, Firenze e Milano e persino di informare riservatamente le Istituzioni. Lo stesso Mori, in un interrogatorio del 1° ottobre 1997 reso alla Dda di Firenze, ricorda la memoria, ammettendo il contatto con Bellini, ha testualmente affermato «che se avessi dato spago al Bellini e questi si fosse inserito più in profondità nel rapporto che aveva allacciato, sarebbe stato senz’altro eliminato da Cosa nostra».
Lo stesso Gioè, nella lettera trovata nella sua cella, qualificò Bellini come un infiltrato. Il ruolo di Bellini è stato confermato oltre che dal medesimo e dal maresciallo Tempesta, anche dai collaboratori di giustizia e mafiosi di rango, Giovanni Brusca e Angelo Siino.
SISTEMI CRIMINALI
L’indagine sui sistemi criminali di fine anni Novanta della Procura di Palermo fa riferimento a Bellini attraverso il richiamo dell’informativa della Dia n. 3815/98 del 31 gennaio 1998. Nell’informativa si fa riferimento ai rapporti fra l’avvocato di Stefano Delle Chiaie, Stefano Menicacci e «Paolo Bellini, personaggio proveniente dalla destra eversiva, coinvolto nelle indagini sulla strage di Bologna e nel ’92 (dal quale uscì prosciolto, ndr) in contatto con il mafioso Nino Gioè nell’ambito di una delle cosiddette “trattative” che Cosa Nostra avviò durante la stagione stragista, in questo caso utilizzando cercando di utilizzare i contatti che Bellini aveva con i Carabinieri».
La stessa indagine archiviata rimanda alla ricostruzione della vicenda, contenuta nella sentenza della Corte d’Assise di Firenze sulle stragi del ’93.
QUI FIRENZE
A pagina 467 della sentenza emessa il 5 ottobre 2011 dalla Corte d’Assise di Palermo, a proposito dei contatti tra Gioè e Bellini, si legge addirittura che quest’ultimo è «un controverso personaggio il quale addirittura avrebbe dato alla mafia l’ispirazione di colpire le testimonianze della cultura e della storia del Paese».
Una sorta di ideologo (a sua insaputa?) della strategia della tensione. E difatti a pagina 468 si legge che «dalle dichiarazioni rese a suo tempo da Tempesta si evince che Bellini aveva rappresentato con lucida chiaroveggenza la nuova strategia di Cosa nostra (a suo dire però solo intuita attraverso le parole di Gioè)».
A pagina 469 si legge che l’irruzione sulla scena di Paolo Bellini fu pienamente confermata da Giuseppe Brusca il quale precisò che Totò Riina, informato dall’esistenza di quell’approccio, stilò di suo pugno l’elenco dei cinque mafiosi che avrebbero dovuto essere posti agli arresti domiciliari, se non scarcerati, in cambio del recupero di alcune opere d’arte e che, dopo l’introduzione dell’articolo 41 bis, stando a quello che Gioè gli aveva raccontato circa il suggerimento di Bellini, il discorso si era spostato sui danneggiamenti ai monumento e alle città d’arte da utilizzare come arma di ricatto.
Amarissime e inquietanti le conclusioni, sul punto, della Corte d’Assise, da pagina 470: «La coincidenza tra le dichiarazioni di un sottufficiale dell’Arma (ma dell’operazione Bellini parlarono anche funzionari della Dia di Milano) e quelle di un collaboratore di giustizia non può che risolversi in una valorizzazione notevole dell’attendibilità di quest’ultimo.
C’è da chiedersi però: Paolo Bellini fu soltanto uno dei tanti confidenti che si muovono borderline tra la delinquenza e la legge, un po’ millantatori e un po’ avventurieri, capaci di assemblare informazioni veritiere con strumentali fantasie e menzogne, sempre sospinti da un proprio personale tornaconto?
Forse!
Sta di fatto che quel contatto costituì per Riina e soci, e senza che l’avessero provocato, il primo sondaggio della permeabilità delle istituzioni a trattare.
Se quindi i progetti di attaccare lo Stato con ogni mezzo, nei suoi beni e nella sua sicurezza, sorsero già nella primavera-estate del ’92, c’è da chiedersi come mai la loro attuazione concreta subì un differimento di circa un anno.
E’ vero che Cosa nostra aveva i suoi “impegni” siciliani, ma questi erano costanti e furono portati avanti anche dopo le stragi del ’93… ».
Per ora mi fermo qui. Domani, però, ricomincio.
2 – to be continued (per la precedente puntata si veda http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/10/20/le-nuove-carte-della-pg-di-palermo1-servizi-deviati-p2-violazione-della-legge-anselmi/)