Prevenendo l’etichetta, mi autodefinisco «mafiologo da strapazzo», definizione che Emanuele Macaluso in una lunga riflessione pubblicata sul Foglio (e dove sennò?) il 20 marzo non ha attribuito a qualcuno in particolare ma, mi pare di capire, a tutti i giornalisti, gli analisti (per non parlare dei magistrati, dei politici e della quota parte di società) che ostinatamente si tormentano sul disonore della trattativa “tra-di-tri-ce” tra Stato e Cosa nostra negli anni Novanta. Io sono tra questi. E non me ne vergogno. Anzi. Ergo, sono un «mafiologo da strapazzo» e lo dico in premessa, all’indomani del proscioglimento, nei confronti del pm Nino Di Matteo, dall’accusa di aver diffuso l’esistenza di una telefonata del Capo dello Stato: per me qualunque trattativa tra Stato e mafie non solo è un delitto ma è il peggior tradimento che si possa fare alla democrazia e alla propria Patria. Va, ovviamente, provata. Punto e a capo.
Di trattativa e non di “presunta” trattativa scrivo perché – ma questo Macaluso non lo riporta – anziché attendere il giudizio in primo grado del processo in corso a Palermo o rifarmi al processo cosiddetto Mori-Obinnu che, sempre a Palermo, il 17 luglio 2013 e ancora in primo grado ha visto assolti gli imputati, mi rifaccio ad un’altra sentenza, questa volta emessa a Firenze.
COM E’ TRISTE FIRENZE
Il 5 ottobre 2011 la Corte d’Assise di Firenze, condannando in primo grado all’ergastolo il boss Francesco Tagliavia, accusato di aver partecipato all'esecuzione delle stragi del 1993, scrisse: «Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia. L’obiettivo che ci si prefiggeva, quantomeno al suo avvio, era di trovare un terreno d’intesa con Cosa nostra per far cessare la sequenza delle stragi. E’ verosimile che tutti gli apparati, ufficiali e segreti, dello Stato temessero sommamente altri devastanti attentati dopo quello di Capaci, nella consapevolezza che in quel momento non si sarebbe saputo come prevenirli e questo anche perché, e lo si intuisce dalla stessa esplorazione affidata al capitano De Donno, nonostante gli sforzi encomiabili di tutte le forze di polizia, si brancolava abbastanza nel buio, soprattutto sul piano dell’intelligence».
Questo e molto altro ancora si legge da pagina 511 della sentenza 3/11 depositata il 5 marzo 2012 (l’ergastolo a Tagliavia è stato confermato in appello il 1° ottobre 2013 e ora giace in Cassazione il ricorso).
Teniamo a mente quel punto fermo messo nero su bianco dai giudici di Firenze («Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia») e torniamo a Macaluso, le cui considerazioni, non condivido al 99% ma rispetto al massimo, come dovrebbe essere in una sana dialettica democratica.
Non so se la riflessione (non è la prima, non sarà l’ultima) del politico siciliano di lungo corso (è nato a Caltanissetta nel ’24), sia stata indotta anche dalla vecchia amicizia con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il quale, il 21marzo, dalle colonne dell’Unità, gli intonerà così il buon 90esimo compleanno: «E l’augurio che oggi dunque gli rivolgo dalle colonne de l'Unità, che egli diresse in un’epoca ormai lontana, è di continuare incrollabilmente, come sta facendo, ad arricchire di nuovi motivi politici, culturali, umani il nostro personale rapporto con quel che si muove di più vivo e genuino, abbracciando diverse generazioni, nel mondo politico, nelle istituzioni, nella società, insomma in questo nostro Paese, cui egli è legato da mille fili, ricordi, preoccupazioni speranze».
Non lo so, ma so che la solidarietà, tra vecchi amici, conta eccome, visto che a nessuno di voi, cari lettori, sfugge che proprio intorno al nome del Capo dello Stato, chiamato a testimoniare dai pm del processo sulla trattativa (Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia), ruota una furiosa battaglia politico/istituzionale.
Riassumere la lunga e appassionatissima riflessione di Macaluso, che si affida concettualmente e dialetticamente per lunghe parti al giurista Giovanni Fiandaca e allo storico Salvatore Lupo è esercizio complesso perché l’ex Pci è abile di penna ancor più che di favella e riesce a dissimulare (rectius: negare) perfino che la sua lunga riflessione sia una memoria difensiva (non richiesta) di alcuni imputati (e di alcuni testimoni) del processo palermitano. Lo nega facendo ricorso alla proprietà transitiva dell’uguaglianza, quando scrive: «…il libro dei due professori non è una memoria difensiva, come insinua il quotidiano ingroiano, ma una difesa del diritto e della ragionevolezza, su fatti letti con l'occhio acuto dello storico e del giurista».
Il libro in questione è "La mafia non ha vinto – Il labirinto della trattativa" (Laterza) e, per chi non lo avesse capito, il «quotidiano ingroiano» è il Fatto Quotidiano. Io (lo premetto per qui pochi che ancora non lo sapessero) non sono né ingroiano né antingroiano né a favore del pm o politico Tizio né contro il pm o politico Caio: mi disinteresso di tutte le etichette, non ho e non voglio avere amici (nella magistratura, nella politica e nella mia stessa categoria e per questo non frequento neppure quelle piazze mediatiche che creano personaggi fatti di nulla) e mi ostino a ragionare solo con la mia capa. Privilegio rarissimo, che rivendico con orgoglio.
IN SINTESI
Concentrare, dicevo, l’appassionata digressione di Macaluso non è semplice e, chiedendo scusa all’autore, provo a riassumere i passaggi a mio avviso fondamentali in cui alterna alla difesa (non richiesta) di alcuni imputati e di alcuni testimoni, la difesa (non richiesta) dei docenti e la difesa (consequenziale e anche in questo caso legittima) del proprio passato di intellettuale, politico e giornalista. Comunque ci provo:
1) l’uso dell'azione penale della magistratura può colpire o rivelarsi un boomerang, se non è fondata sulla certezza delle prove e la sapienza giuridica. «Nel processo della cosiddetta trattativa mancano le prove e la sapienza giuridica; e i fatti sono letti con lenti deformanti», assicura Macaluso.
Fa nulla che una sentenza abbia già chiarito che, “cosiddetta”, la trattativa proprio non è. Che manchino le prove e la sapienza giuridica è un giudizio (legittimo) di Macaluso sul quale il tempo (giudiziario) dirà. Quanto alle lenti deformanti mi domando: ma quali sono?
2) la strategia stragista della mafia è stata sconfitta e non ci fu nessuna trattativa. An
che perché, scrive Macaluso, dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino la reazione del popolo e delle istituzioni fu tale da costringere Cosa nostra a una ritirata. Lupo ricorda che dopo la sentenza del gennaio 1992, la quale confermò tutte le condanne del maxiprocesso, «il pendolo delle relazioni fra Stato e mafia, che in 130 anni aveva così spesso oscillato verso la collaborazione, ora sembrava orientarsi verso il contrasto. Il risultato era di portata storica».
Sul fatto che non ci fu nessuna trattativa non mi ripeto, sulla sconfitta della strategia stragista concordo parzialmente ma, mi chiedo, poteva essere diversamente? Difficile vista la reazione (prevedibilissima) di società e Istituzioni e dunque logico e scontato è anche il contrasto richiamato da Lupo.
Questo è il mio pensiero, eppure, quegli stessi giudici di Firenze che mai vengono citati dai magnifici rettori dell’Università della mafiologia autentica e comparata, da pagina 513 della sentenza non la pensano come me e scrivono che, sull’esaurimento della stagione stragista, ci sono «molte ipotesi possibili».
Quanto alla “ritirata”, vale ricordare che ne esistono di due tipi: la resa e quella strategica. Sicuri che Cosa nostra si sia arresa in quell’occasione o non abbia invece preferito rinculare e, appunto, trattare per cambiare tattica e tornare alla mimetizzazione sconfessata dalle follie corleonesi, cedendo, più o meno volontariamente, lo scettro criminale alla ‘ndrangheta?
3) citando gli autori, Macaluso scrive che «una parte d'Italia ha quasi bisogno di convincersi che nel passaggio cruciale del 1992-'93 ci siano state non solo trattative tra apparati di sicurezza, gruppi politici, fazioni o esponenti mafiosi… Nei prossimi anni qualsiasi cosa accada gli opinion makers continueranno imperterriti nella celebrazione della invincibilità della mafia».
Onestamente non capisco come si leghino i due passaggi ma, umilmente, ricordo, per l’ennesima volta, che a dire che trattativa ci fu non è (solo) una parte d’Italia ma una Corte d’Assise. Quanto all’invincibilità della mafia (rectius: delle mafie, tra le quali Cosa nostra oggi è una pinzillacchera rispetto alla ‘ndrangheta) sono tra i “mafiologi da strapazzo” che pensano che, beh, effettivamente lo Stato è sulla strada buona per renderla invincibile. Per fortuna, però, non sono un opinion maker.
4) la tesi della assoluta inaccettabilità etico-politica di una qualsiasi forma di possibile trattativa Stato-mafia, dice l’opinion maker nisseno, è smentita dalla storia.
E a questo proposito Macaluso si cita, attraverso la ricostruzione di alcuni fatti che si svolsero in Sicilia nel 1950 (Governo De Gasperi). «Lo Stato, attraverso i suoi apparati – scrive Macaluso – trattò con la mafia, che eseguì l'operazione concordata: l’uccisione del bandito Salvatore Giuliano. I Carabinieri che allora operarono, il colonnello Luca e il capitano Perenze, non furono processati ma encomiati, decorati e promossi nei gradi».
Ammetto di essere, oltre che un “mafiologo da strapazzo”, anche un “intellettuale” (ma solo perché la professione giornalistica tale è, non perché voglia attribuirmi meriti) da strapazzo. A me sembra che questa riflessione di Macaluso contenga un concetto eticamente e politicamente (mi rifaccio alla sua impostazione) devastante: dato che trattativa ci fu, trattativa ci può essere. Ma che cazzo di Stato è uno Stato che ricorre (rectius: si affida o anche solo pensa) alle mafie per risolvere questioni e/o conflitti? E’ uno Stato socialmente, eticamente e politicamente accettabile, sostenibile, presentabile? A voi la conclusione. La mia la conoscete. O, se mi leggete per la prima volta, la potete intuire.
5) Fiandaca demolisce con argomenti giuridici l’impianto giudiziario della Procura e dopo averlo fatto in un precedente saggio, ricorda Macaluso, ripropone con ricca argomentazione un tema che deve fare riflettere tutte le istituzioni. Infatti, dice, in questo caso vengono chiamati in causa un ex capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, il capo della polizia di allora Parisi, i capi dei Ros, il generale Lubrani e il colonnello Mori, i dirigenti della Amministrazione penitenziaria (Dap), i giudici Capriotti e Di Maggio, il giurista Conso ministro della Giustizia, parlamentari, Mannino e altri.
Il tema è questo: la decisione ministeriale di togliere dal carcere durissimo (41 bis) un gruppo di condannati per mafia, ma non i boss, è una concessione fatta a Cosa nostra frutto della trattativa o è stato un atto di politica giudiziaria del governo? Quell’atto è il culmine di una serie di reati commessi dagli imputati?
Su queste domande si interroga Macaluso, che per rispondere e andare oltre si affida ancora a Fiandaca, il quale scrive nel saggio di Laterza cofirmato: «Non c'è bisogno di essere giuristi per richiamare la logica della divisione dei poteri e delle competenze istituzionali, operante anche nell'attuale democrazia costituzionale. In base a questa logica, la salvaguardia preventiva del bene della sicurezza pubblica, finalizzata alla protezione della vita e della incolumità dei cittadini da pericoli o minacce futuri o incombenti, compete innanzitutto al potere esecutivo e alle forze di polizia; senza che la doverosità delle strategie di intervento da prescegliere possa considerarsi condizionata da una previa autorizzazione, da un previo assenso dell'autorità giudiziaria».
Detto in altre parole: a decidere di fronte al pericolo presente o futuro è il Governo e, di conseguenza, le forze di polizia. Ma andò proprio così quando il Governo concedette quel che concedette sull’ammorbidimento del carcere “durissimo” a un plotone di mafiosi? Io non ho le certezze descritte e attendo di conoscere il prosieguo del dibattimento palermitano (e oltre) per capire come andarono davvero le cose (se mai lo scopriremo davvero).
6) Macaluso ricorda quella che fu un’inchiesta (cosiddetta “Sistemi criminali”) che nel 2001 fu archiviata per richiesta al Gip della stessa Procura di Palermo, a partire dal titolare del fascicolo, Roberto Scarpinato.
L'inchiesta fu appunto archiviata, ma Scarpinato – ricorda Fiandaca e con lui Macaluso – ha scritto un libro con il giornalista Saverio Lodato ("Il ritorno del principe") nel quale parla proprio di una cupola: «Un sistema integrato di soggetti individuali e collettivi. Una sorta di tavolo dove siedono figure diverse, non tutte necessariamente dotate di specifica professionalità criminale: il politico, l'alto dirigente pubblico, l'imprenditore, il finanziere, il faccendiere, esponenti delle istituzioni e, non di rado, il portavoce della mafia».
Macaluso osserva c
he manca il "magistrato deviato"ma è un arido e mal riuscito esercizio ironico perché, a parte il fatto che sono certo che Scarpinato ha bene in mente le tante “deviazioni” della magistratura inquirente e giudicante a Palermo e non solo, mancano anche il “giornalista deviato”, il “massone deviato” e il “professionista deviato” e magari anche il “professionista dell’antimafia deviato” (solo per citare alcuni tra i commensali che siedono a quel tavolo, dimenticati nell’elenco).
Vorrei che Macaluso e tutti noi ci interrogassimo sulla domanda che, e siamo alla chiusura del cerchio, sta all’inizio e alla fine dell’attuale procedimento palermitano: ma davvero qualcuno oggi – archiviazione si, archiviazione no, archiviazione forse, processo sì, processo no, processo forse – può ancora pensare che le mafie siano altro da un tavolo così splendidamente sintetizzato (per difetto) da Scarpinato? Qualcuno può davvero pensare che le mafie 2.0 siano altro rispetto ad una Spa nella quale (come ho scritto mille volte) le cosche, gli uomini d’onore non detengono più le quote di maggioranza, saldamente nelle mani di quei commensali che, alla bisogna, cedono pacchetti azionari all’uno o all’altro soggetto e ricorrono alle mafie come agenzie “di” servizio e “al” servizio?
Rispetto – e lo dico in modo convinto e determinato – le argomentazioni di Macaluso, dei professori Fiandaca e Lupo ma se il dibattito sui sistemi criminali è ancora a questo punto, non solo ho la sensazione che non faremo passi in avanti nella lotta alle mafie ma ho la quasi certezza che culturalmente (la mafia si sconfigge non con l’esercito ma con un esercito di insegnati come insegnava lo scrittore siciliano Gesualdo Bufalino e come poi argomentarono anche Falcone e Borsellino) faremo rovinosi passi indietro verso una democrazia sempre più corrotta e corruttrice.
Dopo questa lunga disamina, rimando a domani.
Ho infatti deciso di analizzare le riflessioni del professor Fiandaca, che l’11 febbraio 2014 è stato audito dalla Commissione parlamentare antimafia, partendo proprio dalle odierne analisi “di” e “su” Macaluso, in modo da spianare la strada ad un argomento ostico e complesso che, trattare come ha fatto il Foglio (con il titolo “Il processo sulla trattativa Stato-mafia è una boiata pazzesca” nel pezzo di Giuliano Ferrara già il 1° giugno 2013) mi sembra un’offesa alla dignità. La propria, ancor prima che quella di una memoria storica collettiva che non ha bisogno di essere ridicolizzata ma, semmai, dispiegata nel rispetto delle altrui opinioni.
r.galullo@ilsole24ore.com
1 – to be continued