La memoria nel processo Crimine della Dda di Reggio Calabria e il detto: «San Luca regna, Reggio governa»

Cari lettori sto analizzando da alcuni giorni la minuziosa ricostruzione contenuta nelle 2.079 pagine di memoria depositate a fine 2013 dai pm della Dda di Reggio Calabria Antonio De Bernardo e Gianni Musarò nel processo d’appello Crimine. Non tutta ovviamente (gli spunti sono tantissimi e di livello) ma solo alcuni aspetti (rimando per questo anche ai post http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/unitariet%C3%A0-della-ndrangheta-le-analisi-dei-pm-antimafia-de-bernardo-e-musar%C3%B2-e-le-lancette-mafiose-del-tempo.html, http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/lunitariet%C3%A0-della-ndrangheta-loligarchia-al-comando-secondo-lanalisi-dei-pm-antimafia-de-bernardo-e-musar%C3%B2.html e http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/i-pm-antimafia-de-bernardo-e-musar%C3%B2-sistemano-per-sempre-don-mico-oppedisano-non-%C3%A8-il-provenzano-della-calabria.html).

Ho scritto nella scorsa settimana che l’unitarietà della ‘ndrangheta è un tema che non mi appassiona enormemente, convinto come sono (e lo scritto in ogni salsa in questi 4 anni) che la “Provincia” altro non è che un tassello in una cabina di regia molto più ampia dove siedono Stato deviato, massoneria sporca, Chiesa corrotta, professionisti al soldo e politici allevati a Vangelo (non quello della Chiesa, ovviamente). Questa è mafia.

La mafia 2.0 come spesso la chiamo io per semplificare il ragionamento. Quella con i quali 23 anni fa voleva fare i conti la Procura di Palermo e con la quale, 23 anni dopo, vogliono tornare a fare i conti la stessa Procura di Palermo, oltre a quelle nissene, catanese e reggina.

In questi anni ho ripetutamente chiesto a me stesso (e di conseguenza ho scritto e domandato a chi ne sa più di me attraverso questo blog) se un’organizzazione criminale transnazionale così complessa potesse davvero reggersi solo (ripeto: solo, il che vuol dire che la Corte d’appello, riconfermando e magari aggravando il quadro già riconosciuto in primo grado, potrà mettere una parola pressoché definitiva sulla struttura così come cristallizzata dall’indagine Crimine/Infinito) sul capo- crimine ottuagenario don Mico Oppedisano e su una struttura (la Provincia) che ai miei occhi appare, appunto, solo una tessera in un puzzle di governo molto ma molto più ampio e complesso.

Nessuna pretesa di ragione ma solo di ragionamento.

Abbiamo visto, la scorsa settimana, la differente lettura sul personaggio che la stessa Procura ne dà – a mio sommesso avviso – nel tempo.

E – dunque – ecco che mi risuona quella descrizione che i due pm danno da pagina 98 quando denunciano:

1) i tentativi di ridimensionare il processo e lo spessore criminale degli imputati, con buona pace del fatto che nel processo, in un unico processo, sono coinvolte direttamente o indirettamente le più importanti e prestigiose famiglie di 'ndrangheta della Calabria;

2) i tentativi di ridimensionare il processo ironizzando sulla figura di Oppedisano Domenico, anche se le risultanze processuali dimostrano che si trattava di un personaggio storico, rispettato all'interno dell'intera 'ndrangheta, capo-locale di Rosarno e responsabile della Provincia già prima di essere nominato capo-crimine;

3) i tentativi di ridimensionare il processo lasciando intendere che la ricostruzione che é stata fatta é frutto non di un'attenta lettura delle risultanze processuali, ma della pretesa di trapiantare in Calabria il modello palermitano. E ciò nonostante la Dda di Reggio Calabria abbia ripetutamente ed esplicitamente affermato che l'accostamento fra la Cupola e la Provincia é sbagliato;

4) i tentativi di prevenire gli effetti del processo rivelando informazioni coperte dal segreto d'ufficio.

UNA COSA I TENTATIVI DI RIDIMENSIONAMENTO UN’ALTRA LE CRITICHE

Debbo dire che i “tentativi di ridimensionamento” ci sono stati, eccome, e sono pervenuti dalle difese dei singolo imputati. E cos'altro ci si poteva aspettare? Ma mi riferisco solo ai primi tre punti.

I tentativi di ridimensionamento, ovviamente, ci sono stati anche da parte del "sistema criminale" che i pm De Bernardo e Musarò delinenano splendidamente da pagina 90 e seguenti (ma questo aspetto, come promesso, cominceremo ad analizzarlo da giovedì 16 gennaio).

Il quarto – invece – non è stato un tentativo ma un colpo messo a segno come la stessa indagine ha dimostrato (e in questo caso le difese, ovviamente, non c’entrano nulla ma il "sistema criminale" c'entra, ah se c'entra).

Il resto, vale a dire le riflessioni aperte su questa operazione, in democrazia, si chiamano critiche e libertà di pensiero e opinione. Principi, questi utimi, sacri in Costituzione.

Ma quel che appare strano e che mi sfugge è invece che è totalmente mancato in questi anni un dibattito alla luce del sole all’interno di chi – la magistratura – ha riflettuto, con visioni complementari (ripeto: complementari) su quell’operazione. I magistrati (potrei farvi decine di nomi) che dal giorno dopo ne riflettevano, non avevano quasi mai il coraggio di uscire allo scoperto. Perche? Paura? E di cosa? Qualcuno lo ha fatto addirittura con percorsi tortuosi, come chi ha rivalutato il lavoro degli anni Ottanta a Milano del pm Alberto Nobili (in verità stimatissimo da tutti, a partire da chi vi scrive) per dire che nel 2010 le Procure di Milano e Reggio non avevano scoperto nulla di nuovo rispetto al passato.

Chi lo ha fatto direttamente – e parlo ad esempio del procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri – ha visto le sue riflessioni, scivolare nel nulla.

Chi ha osato di più, come ad esempio il sostituto procuratore nazionale antimafia Roberto Pennisi addirittura in commissione parlamentare antimafia (sempre nel 2012) è stato bellamente ignorato e isolato. Come se avesse parlato al vento o avesse attentato al re e alla regina (si legga http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2012/06/il-pm-della-dna-roberto-pennisi-in-commissione-antimafia-fa-a-pezzi-la-teoria-della-ndrangheta-unitaria-nel-nord.html e ancora http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2012/06/il-pm-della-dna-roberto-pennisi-il-futuro-della-delocalizzazione-ndranghetista-da-cremona-a-ven
ezia.html
).

L’ANNO DELLA RIFLESSIONE

Le riflessioni, anche critiche, sempre costruttive e mai distruttive, hanno cominciato a farsi largo tra i magistrati nel 2012. Nei più alti consessi.

Carlo Caponcello – non un pasdaran della favella o della penna ma un meticoloso e preparato magistrato della Direzione nazionale antimafia –  scrisse testualmente a pagina 85 e seguenti della relazione della Procura nazionale antimafia del 2011 trasmessa a Governo e Parlamento a gennaio 2012: «Appare opportuno evidenziare, avuto riguardo alla figura del capo crimine pro tempore Oppedisano Domenico, che al predetto più che un potere reale sulle dinamiche e strategie complessive della ‘ndrangheta debba essere riconosciuto uno specifico, peculiare e rilevante ruolo di rappresentanza esterna: una sorta di “custode delle regole tradizionali”. Un’organizzazione unitaria, in cui i riti sacrali e le regole tradizionali costituiscono, da un lato, il segmento iniziale dell’affiliazione e, dall’altro, l’affermazione della Autorità mafiosa e della immanenza di essa. Autorità politica e verosimilmente non gestionale ed operativa, ma che rinsalda i rapporti, tonifica gli impegni, regolamenta i contrasti interpersonali; ruolo di direzione reale e concreta deputato al controllo delle dinamiche interne e funzionalmente necessaria per lo sviluppo di strategie criminose Le conversazioni acquisite nella indagine “Crimine” elidono, invero, in radice ogni dubbio sull’esistenza di un assetto verticistico della organizzazione in parola: i dialoghi intercettati nitidamente offrono una inusuale ed illuminante rappresentazione della struttura associativa e del ruolo dispiegato dal capo crimine».

Lo scrive Caponcello che don Mico Oppedisano era un custode delle regole pro tempore, un rappresentante esterno, una specie di ambasciatore (di San Luca e dintorni). Non usa l’arma dell’ironia, Caponcello, lieve e riservata a chi ne apprezza le virtù, ma va dritto dritto al sodo, allineandosi – parola più parola meno, concetto più concetto meno – a quanto dirà nel corso della requisitoria in primo grado Nicola Gratteri (http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2012/02/esclusivoreggio-calabria-%C3%A8-ormai-persa-parola-della-dna-e-don-mico-oppedisano-non-%C3%A8-pi%C3%B9-il-capo-dei-.html).

 

AVANTI UN ALTRO

E’ invece il 26 giugno, sempre del 2012, quando il procuratore capo di Catanzaro, Vincenzo Lombardo, parlerà in Commissione parlamentare antimafia (http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2012/07/oppedisano-mai-sentito-la-gara-per-la-procura-di-reggio-calabria-passa-dallinchiesta-il-crimine.html).

Il commissario Beppe Lumia gli chiede conto del parallelismo Cosa nostra-‘ndrangheta (che abbiamo già visto nel post della scorsa settimana), Lombardo risponde: «Per quanto riguarda questa idea della 'ndrangheta come organizzazione di vertice sul tipo della mafia siciliana, che viene soprattutto da Reggio Calabria non sono sicuro che noi fra qualche anno potremo dire le stesse cose. Leggo anch'io dai giornali che sia valenti investigatori che magistrati altrettanto valenti hanno espresso in sede processuale delle perplessità. Io stesso, se devo essere onesto, avendo fatto tra l'altro il procuratore della Repubblica di Palmi, area di provenienza dell'onorevole Napoli, per sei anni, che in un'area di mafia non sono pochi, non ho mai sentito parlare di Mico Oppedisano, conosciuto come capo dei capi. In questi anni ne ho conosciuti tanti, ma di Mico Oppedisano non si è mai parlato».

Mai sentito parlare. O Lombardo è (era) sordo oppure c’è qualcosa che non quadra. Non solo: Lombardo ridimensiona ancora io concetto di “capo dei capi” e dice che l’idea ‘ndrangheta = Cosa nostra viene da Reggio. Da Reggio “chi” e da Reggio “dove”, Lombardo però, ahimè, non lo dice.

Ma Lombardo spinge sull'acceleratore.. «Alcune volte ho l'impressione che anche questo discorso dei locali di 'ndrangheta e del conferimento delle cariche sia un po' esagerato come valenza criminale e pervasiva dei gruppi organizzati. Non ho mai visto interessati da queste storie i Pesce della Piana, i Bellocco, i Nirta-Strangio di San Luca o le cosche De Stefano e Libri; loro quando devono decidere, lo fanno per conto loro, sulla base degli affari che sono prevalenti in un determinato momento. Abbiamo visto, ad esempio, lo sviluppo di Reggio Calabria».

Fermiamoci di grazia: «…loro quando devono decidere lo fanno per conto loro…». Ma, Lombardo va ancora oltre e punta dritto all’unitarietà della ‘ndrangheta. «Se quello della 'ndrangheta fosse un vertice unitario, come qualche volta si dice – dice con molta signorilità – nessun altro dovrebbe avere autonomia. Noi parliamo di 'ndrangheta del distretto di Catanzaro, che dovrebbe dipendere tutta da Reggio Calabria anche nelle decisioni. Vedo invece una 'ndrangheta in tutto il distretto che riconosce la primogenitura di Reggio Calabria. I grandi mafiosi di Cutro, di Cirò, di Rossano e di Crotone, dove in particolare, ce ne è uno, ma anche più di uno ed anche pentiti, come Di Dieco, Bonaventura e altri, riconoscono a Reggio Calabria la primogenitura. Si accreditano anche riconoscenze delle 'ndrine e dei capi 'ndrina di Reggio Calabria per utilizzarle nel loro territorio. Questa è però una cosa diversa, perché poi nel loro territorio ognuno ha il suo gruppo, anzi, spesso i gruppi si sfasciano. La 'ndrangheta, per come la conosco io è costituita da una serie di locali, di 'ndrine, di corpi, alcune volte di tipo esclusivamente familiare piccolo, che trattano, vanno in rapporto e in conflitto. Questo dipende però dalla comunione delle imprese e degli affari. Quando però devono decidere o devono ammazzare qualcuno, non è che lo vanno a dire, secondo una mia personale opinione, a Mico Oppedisano».

I nomi della 'ndrangheta sono sempre gli stessi ed è strano che non compaia anche la famosa famiglia Oppedisano. «Vengo da Reggio Calabria – afferma ancora Lombardodavanti alla Commissione antimafia – e ho imparato a conoscere anche i nomi su Catanzaro. Sono i nipoti dei Libri e i figli dei De Stefano. I cognomi sono gli stessi e lo stesso vale per le aree d’insediamento; vi sono sempre quelli di Sambatello, i Condello. Condello lo conosco perché uno dei suoi
primi mandati di cattura lo abbiamo fatto io e
Macrì proprio nel 1986, con Albanese e altri, nel corso della seconda grande guerra di 'ndrangheta. Quando devono decidere cosa si deve fare non è che vanno a fare il summit a Polsi. Il summit a Polsi era un modo per estrinsecare, per simboleggiare le 'ndrine verso l'esterno».

Non credo – e sfido chiunque a dimostrare il contrario – che Gratteri, Pennisi, Caponcello, Lombardo, volessero, vogliano o vorranno sminuire, ridimensionare o fare della volgare ironia. Nessun folle boicottaggio o criminale quanto involontario collaborazionismo con il “nemico”. Credo, invece, che tutti volessero, vogliano e vorranno contribuire ad andare oltre quanto processualmente provato (ripeto: spero che la Corte d’appello metta un punto fermo e confermi se non aggravi quanto statuito in primo grado) e puntare dritto al cuore della ‘ndrangheta 2.0.

Del resto sarà lo stesso Caponcello a cristallizzare meravigliosamente quell’”oltre”, quando scrisse anno – nero su bianco – che la ‘ndrangheta è «una presenza istituzionale strutturale della società calabrese». Lo fa nella relazione della Dna di fine 2011 consegnata a Governo, Parlamento e Commissione parlamentare antimafia. Caponcello afferma anche che la ‘ndrangheta «è interlocutore indefettibile di ogni potere politico ed amministrativo, partner necessario di ogni impresa nazionale o multinazionale che abbia ottenuto l’aggiudicazione di lavori pubblici sul territorio regionale» (si vedano i miei servizi sul Sole-24 Ore del 9 febbraio 2012 e anche http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2012/02/la-ndrangheta-in-calabria-siede-da-pari-a-pari-con-politica-e-multinazionali-certo-ma-anche-al-nord.html).

ANCHE IL GUP

A tentare di trovare una sintesi sono le motivazioni delle sentenza con le quali il 21 luglio 2012 il gup di Reggio Calabria Giuseppe Minutoli ha dato volto alle risultanze processuali dell'inchiesta. Sembrano fatte apposte per alimentare quell’”oltre” di cui deve nutrirsi chi ha sede di verità (giudiziaria, processuale e, soprattutto, di storia contemporanea).

«Nessuna confusione – si legge nelle motivazioni del processo – può essere fatta tra la carica di "Capo Crimine" di Polsi (nel periodo interessato dalle indagini attribuita a Domenico Oppedisano) e la carica di Crimine che si attribuisce a Giuseppe De Stefano nell'ambito della operazione Meta». Non è possibile sovrapporre i due piani, scrive Minutoli, perché la carica a De Stefano (non imputato nel processo Crimine) «riguarda esclusivamente il macro-organismo criminale reggino oggetto di Meta e all'interno del quale a De Stefano risulta attribuito il ruolo di responsabile per le attività criminali che agisce all'interno dell'organismo decisionale quale vertice operativo, per aver ricevuto, con l'accordo di tutti i capi-locale, la carica di Crimine. D'altro canto non risponde neppure al vero che i nomi di alcune delle storiche "famiglie" 'ndranghetistiche emerse nei processi celebrati negli ultimi decenni a Reggio Calabria, come i De Stefano e i Tegano (mandamento città) ed i Piromalli (mandamento tirrenico), non compaiano in questa indagine, che soltanto non ha tra i suoi imputati appartenenti a quelle cosche» per la «non universalità» di questo processo, che non può certo abbracciare l'intero panorama criminale reggino».

Vorrei tanto capire chi ha fatto confusione tra le cariche di capo crimine di Polsi e il “crimine”, carica attribuita a De Stefano nell’ambito dell’indagine Meta, ma questo aprirebbe un altro fronte.

Mi sbaglierò – sicuramente – nel pormi un’altra domanda: ma se questa indagine, per bocca del Gup Minutoli e dei pm De Bernardo e Musarò da ultimo, non è un’indagine “universale” come ha fatto qualcuno a definire Oppedisano il "capo dei capi"?

Quanto proprio a don Mico Oppedisano, il gup sottolinea che la sua «figura emerge prepotentemente nel corso di tutta l'indagine quale personaggio di assoluto spessore nell'ambito della 'ndrangheta che fa capo al cosiddetto Crimine di Polsi. Si tratta di un vecchio "patriarca" che vanta una riguardevole carriera criminale all'interno del sodalizio, per sua stessa ammissione. Certo, Oppedisano non è stato scelto quale Capo Crimine perché più feroce o più blasonato dal punto di vista criminale di altri. È di tutta evidenza dalle plurime intercettazioni che la sua è stata una nomina di compromesso tra molteplici istanze di potere che riguardavano i vari mandamenti storici della 'ndrangheta reggina, in esito ad una complessa e defatigante "trattativa". Ma è altresì vero che non è un mero uomo di paglia, bensì un autentico capo, e da lungo tempo, come emerge senza possibilità di equivoci da tutte le conversazioni in cui risulta essere 'ndranghetista ascoltato, stimato (e temuto) anche all'estero, perché di vecchio corso criminale. E la sua nomina ben si giustifica perché Oppedisano appare uomo capace di tentare mediazioni tra gruppi criminali agguerriti e, quindi, di evitare possibili conflitti, sempre in agguato».

 

COLLABORATORI…

Quell’invito a guardare “oltre” ad un’istantanea che fotografa la ‘ndrangheta verticistica viene anche da collaboratori di giustizia che – in primis la Procura di Milano – ritengono attendibilissimi (io, come sapete, sui pentiti non mi sbilancio mai perché li temo fortissimamente e comunque non è il mio ruolo giudicarli).

E’ il 3 dicembre 2010 e sono le 14.40 quando il collaboratore di giustizia Antonino Belnome si presenta davanti ai pm di Milano Dolci Alessandra e Boccassini Ilda.

Leggete una sua risposta in fase di interrogatorio.

Belnome: Non è che… voi avete arrestato per dire Oppedisano, ma Oppedisano non è il capo della 'ndrangheta. Riina non era il capo della mafia, lo è diventato appropriandosene, se no c'era una commissione dove si sedevano quelli con le doti maggiori, quello che succede in Calabria, dove si prendevano decisioni e dove si prendono determinate …Per esempio in Calabria si riuniscono ma non per dire "Cosa facciamo", cioè oppure "Facciamo arrivare quel carico dalla Colombia". Si riuniscono esclusivamente per scegliere le cariche e le copiate, non per stabilire "Cosa dobbiamo fare? A chi dobbiamo ammazzare?" oppure … Quelle sono cose, sono decisioni prese dei paesi, dei locali, poi che uno sia favorevole o no … Cioè, per esempio, chi gli diceva "Tu non puoi ammazzare Novella?", cioè non c'è
un discorso del genere quando si riuniscono per decidere queste cose qua: le cariche.

Su queste dichiarazioni – però – come per quelle di tutti i pentiti (magari averne di Tommaso Buscetta anche in Calabria!) ci vado personalmente con i piedi di piombo anche perché doverosamente i pm De Bernardo e Musarò in memoria depositeranno dichiarazioni di altri pentiti (Iannò e Villani solo per fare due nomi) di ben altro tenore sulla struttura, le regole e le decisioni prese in capo alla ‘ndrangheta unitaria e verticistica.

 

…E FAMIGLIE

Permettetemi di concludere questo servizio (dall’articolo di giovedì 16 gennaio si entra, a mio avviso, nel vivo, nel cuore della ‘ndrangheta 2.0 delineata dalla memoria depositata) con un simpatico quanto illuminante siparietto.

Peppe De Stefano – dell’omonima cosca dominante da Reggio a Milano passando per Roma – rilascia il 20 aprile 2011 dalle 17.36 un interrogatorio nel carcere milanese di Opera. Di fronte a lui ci sono Pignatone Giuseppe e il pm della Dda reggina Giuseppe Lombardo.

Li ha chiamati lui a Milano e il motivo lo spiega alla fine dell'interrogatorio lo stesso De Stefano: «Io volevo che mi conoscesse il dottore Lombardo perché mi conosceva solo tramite collaboratori».

Nel corso dell'interrogatorio sostanzialmente dice una ed una sola cosa: io, con la 'ndrangheta non c’entro nulla. Ma ecco il siparietto.

Lombardo – ad esempio la domanda è questa…di Mico Oppedisano lei ha mai sentito parlare?

De Stefanomai dottore, dottore Lombardo mai…

E’ proprio vero quel che si dice in riva allo Stretto: San Luca regna, Reggio governa…

r.galullo@ilsole24ore.com

4 –to be continued (le precedenti puntate sono state pubblicate l’ 8 gennaio http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/unitariet%C3%A0-della-ndrangheta-le-analisi-dei-pm-antimafia-de-bernardo-e-musar%C3%B2-e-le-lancette-mafiose-del-tempo.html , il 9 gennaio http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/lunitariet%C3%A0-della-ndrangheta-loligarchia-al-comando-secondo-lanalisi-dei-pm-antimafia-de-bernardo-e-musar%C3%B2.html e il 10 gennaio http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/i-pm-antimafia-de-bernardo-e-musar%C3%B2-sistemano-per-sempre-don-mico-oppedisano-non-%C3%A8-il-provenzano-della-calabria.html).

  • bartolo |

    beh… galullo, se regnare e governare significa essere legati dai piedi e tenuti a testa in giù, come i polli di renzo, allora è vero: la calabria e l’italia la comandono le citta di san luca e reggio calabria.
    a me risultano cose diverse, mentre nella calabria ho conosciuto il sultanato destra-sinistra dei chiaravalloti (procuratore generale di reggio in aspettativa)-scopelliti-bova-minniti-loiero, in campo nazionale hanno spadroneggiato i condottieri berlusconi-d’alema-prodi…tanto per rimanere nell’ultimo ventennio.

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