Erinni/4: talpe nelle Forze dell’ordine e curatori fallimentari corrotti per le cosche di ‘ndrangheta – Duri giudizi di Cafiero De Raho e pm

Il cuore dell’operazione Erinni – che la scorsa settimana ha portato a Reggio Calabria 20 provvedimenti di fermo nei confronti di altrettante persone presunte affiliate alla ‘ndrangheta, accusate a vario titolo di associazione per delinquere di tipo mafioso, di alcuni omicidi, intestazioni fittizie di beni e di avere reimpiegato proventi di attività illecita nell'acquisto di immobili – va oltre, molto oltre i pur importanti risvolti che hanno condotto investigatori e inquirenti a svelare omicidi, rapimenti e trame torbide. L’indagine è scaturita dalla ripresa della faida che vede contrapposta la cosca Mazzagatti-Polimeni-Bonarrigo a quella Ferraro-Raccosta, scoppiata nel ‘91 e ha portato al sequestro di 80 immobili tra case, negozi e terreni, per un valore di oltre 70 milioni. I magistrati che hanno condotto le indagini sono per la Dda di Reggio Calabria Gianni Musarò,Giulia Pantano e per la Procura di Palmi Sandro Dolce.

Negli ultimi post abbiamo visto l’amore per gli investimenti a Roma e nel Lazio, gli affari con i russi e i conti all’estero.

Oggi tocchiamo – ahimè, ancora una volta – un tema devastante: la corruzione tra le forze dell’ordine e nelle istituzioni che – tanto per far capire quanto sia drammatico il problema – non più tardi di 72 ore fa ha portato all’arresto di un poliziotto nell’ambito dell’operazione Insula della Dda di Catanzaro (quella che ha condotto ai domiciliari l’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole).

LE PAROLE DI CAFIERO DE RAHO

Il tema è delicatissimo e non deve assolutamente intaccare l’amore e la fiducia nelle stesse forze dell’ordine e nei servitori dello Stato. Sono gli stessi Carabinieri, così come la Polizia di Stato, la Guardia di finanza, il Corpo forestale dello Stato e via di questo passo, che, al proprio interno, hanno anticorpi e dna sufficienti e necessari per perseguire, colpire e cacciare le mele marce. Non parlarne però – e in questo blog è stato fatto, con tatto, rispetto e immutata ammirazione per i corpi dello Stato – sarebbe come mettere la testa sotto la sabbia.

Ad un giornalista degno di questo nome non si può chiedere e non deve farlo: la corruzione è un male radicato in ogni settore (a partire dal giornalismo) e tacerne sarebbe l’ennesimo regalo alle mafie, che si nutrono di omertà.

Del resto anche l’operazione Erinni dimostra che di questo tema non si può non parlare e – attenzione attenzione – lo stesso procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, lo ha sottolineato in sede di conferenza stampa il 26 novembre. «La ‘ndrangheta è cresciuta grazie alle connivenze che è riuscita a trovare in molti dei settori istituzionali – ha affermato all’Ansa Cafiero De Rahonon ultimo quello degli appartenenti alle Forze dell’ordine. Vi è piena consapevolezza da parte di tutti, anche dei vertici delle stesse forze dell'ordine dell'esigenza di contrastare la criminalità organizzata soprattutto nelle appendici infedeli dello Stato».

Chi critica i giornalisti, “rei” (sic!) di raccontare il marcio ovunque esso si annidi, senza per questo voler neppure in minima parte indebolire il cordone ombelicale che lega la collettività alle Forze dell’ordine, avrebbe il coraggio di criticare aspramente anche il capo della Procura di Reggio che ha riportato d’attualità un tema così centrale, vitale e delicato?

Se sì, mi auspico che chi ha questo “coraggio vigliacco” di criticare i giornalisti (che qualunque cosa fanno sbagliano: se danno notizie perché le danno, se non le danno perché coprono qualcuno) abbia lo stesso, identico coraggio di criticare il capo della Procura di Reggio Calabria dicendo, apertamente, che le sue parole e ancor prima l’ennesima indagine rompono il legame di fiducia tra la “ggente” e la Forze dell’Ordine. E magari – già che ci siamo – di mettere sotto accusa anche i tre magistrati (non certo i primi) che hanno messo nero su bianco il rischio di forze (dell’ordine) infedeli.

Questo coraggio – sono pronto a firmare le mie lettere di dimissioni in bianco – i “critici” affetti dalla sindrome Nimby (la spazzatura ovunque ma non nel mio giardino) non lo avranno mai perché è facile fare i forti con i deboli ma, per loro, è ancor più facile fare i deboli con i forti.

Ma veniamo, appunto, all’operazione Erinni.

E’ EMERSO CHE…

E’ emerso infatti che uno degli indagati (Domenico Scarfone per la cui conoscenza rimando ai precedenti 4 articoli) fosse a conoscenza dell’indagine in corso e più in generale disponga di un canale privilegiato di raccolta di informazioni investigative, che come tali, dovrebbero rimanere invece segrete. Ad esempio questo emerge nelle conversazioni del 28 gennaio 2013 e del 30 gennaio 2013 intercorse tra Scarfone e il presunto capo Rocco Mazzagatti. Lo scrivono i magistrati a pagina 411 del decreto di fermo.

L’accortissimo Scarfone – scrivono questa volta da pagina 56 – è il soggetto che dimostra più di ogni altro consapevolezza di essere indagato, facendo chiaramente intendere di avere una propria “talpa” in grado di comunicargli in ogni momento, come sembra aver già fatto, l’esistenza di procedimenti a suo carico.

«Il dato investigativo acquisito nella presente indagine  -si legge nel decreto – relativo per l’appunto all’utilizzo “strumentale” dell’apparecchio telefonico da parte degli indagati, pertanto, sminuisce e in alcune circostanze azzera il “valore probatorio” del tabulato telefonico. L’uso strumentale del cellulare, in ottica di depistaggio delle indagini e finalizzato chiaramente alla precostituzione di un alibi falso, per documentare un dato non corrispondente a quello reale, è peraltro un elemento da valutare a carico dell’indagato».

SEMPRE PIU’ SPESSO…

Per investigatori e inquirenti Mazzagatti e Scarfone dispongono di informazioni troppo precise sulle indagini in corso e si mostrano sicuri di poterle periodicamente "aggiornare", circostanza che lascia chiaramente intendere che, «come purtroppo accade ormai sempre più spesso -si legge testualmente nel provvedimento – possono evidentemente fare affidamento su una "talpa" all'interno di ambienti istituzionali»..

Alt, fermi tutti. Se una frase del genere – «come purtroppo accade ormai sempre più spesso» l’avesse scritta un giornalista, sarebbero insorti i vertici dei Carabinieri, della Polizia, delle Fiamme Gialle, dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica, il capo del Governo, il ministro dell’Interno e poi giù per li rami tutti i reggicoda del potere. Il giornalista in questione sarebbe verosimilmente stato indagato per reato d’opinione, attentato ai vertici della Nazione e vilipendio della Patria. Sarebbe stato lapidato ed esposto al ludibrio nella pubblica piazza.

Signori: lo hanno scritto tre-magistrati-tre e visto che il coraggio non è di questa Italia, posso dire senza sorta di smentita (esponendomi al diluvio di cui sopra) che queste cose le vado scrivendo da anni.

Il fatto – lo ripeto all’infinito – che ci siano delle “talpe” «sempre più spesso» all’interno di ambiti istituzionali (come scrivono i tre pm) non vuol dire che il corpo sia marcio o che la fiducia deve venir meno ma vuol semplicemente dire prendere atto di un crescente malessere e di un meccanismo di selezione, formazione e controllo – come scrivo da anni – che ha bisogno di essere rivisto e perfezionato con l’amore di tutti.

PERICOLO DI FUGA

La possibilità di poter contare su “talpe”, tenuto conto della gravità dei fatti contestati e del fatto che i soggetti che hanno la possibilità di procurarsi informazioni sono due elementi di vertice della locale, scrivono i magistrati, «fa ritenere la sussistenza di elementi specifici dai quale desumere con certezza la sussistenza del pericolo di fuga non solo relativamente a Mazzagatti Rocco e Scarfone Domenico, ma a tutti gli altri indagati, legati a Mazzagatti e a Scarfone da un fortissimo vincolo associativo».

E' opportuno sottolineare che le Procure di Reggio Calabria e di Palmi, ricordano che il 9 marzo 2013 il Gip presso il Tribunale di Palmi ha convalidato il fermo di indiziato di delitto eseguito a carico di alcuni esponenti della cosca Bellocco con – tra le altre – questa motivazione: «ritenuto che l’Ufficio di Procura Distrettuale ha evidenziato elementi obiettivi idonei a dimostrare la sussistenza in capo a ciascuno dei soggetti fermati, tutti destinatari dell’addebito associativo di cui al capo a) della provvisoria rubrica, di uno specifico, concreto ed attuale pericolo di fuga, desumibile (pagine 13 e 14 della convalida emessa dal Gip):

1)    dall’esistenza di una “talpa” (verosimilmente, nell’Arma dei Carabinieri) in grado di accedere a notizie riservate o, comunque, di riferire informazioni utili alla pianificazione o all’adozione di iniziative volte ad eludere le investigazioni e a vanificare l’esecuzione dei provvedimenti restrittivi che da qualche tempo i fermati sapevano o, quantomeno, temevano di dover subire, essendo al corrente delle accuse rivolte nei loro confronti (oltre che nei confronti della detenuta Aurora Spanò) dapprima dalla testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola (morta suicida il 28 agosto 2011, in esito al terrificante pressing psicologico al quale l’hanno sottoposta i genitori e il fratello per interromperne la collaborazione con la giustizia), quindi da Rita Stefania Secolo (amica della Cacciola nonché sorella di Antonio e Gaetano Antonio Secolo, questi ultimi sottoposti ad usura ed estorsione dai coniugi Bellocco-Spanò)…».

I tre magistrati delle due Procure, nel decreto di fermo, ricordano anche che «la circolarità delle informazioni che tipicamente caratterizza i consorzi criminali e che fa ragionevolmente presumere che, nell’approssimarsi dell’emissione delle misure cautelari, la notizia dei provvedimenti restrittivi sarebbe stata divulgata tra gli associati, consentendo agli stessi di darsi alla fuga o, comunque, di organizzarsi in modo da minimizzare le conseguenze delle iniziative giudiziarie in corso (estremamente significativo in tal senso è l’episodio segnalato dalla Pg operante nei verbali di esecuzione relativi a Bellocco Domenico cl. ’81 e al di lui fratello Berto, episodio legato all’invio da parte del primo – dopo le ore 22,00 del 5.3.2013, nelle fasi immediatamente antecedenti alla sua cattura e al conseguente trasferimento in caserma – di un sms, puntualmente intercettato dagli investigatori, contenente il perentorio invito a dileguarsi rivolto a Berto con l’inequivoca espressione << scappa via >>);

dalla comprovata disponibilità in capo alla cosca Bellocco (in passato rivelatasi capace ed interessata a garantire ad alcuni affiliati, tra cui la stessa Aurora Spanò, prolungati periodi di latitanza) di bunker e, in genere, di supporti logistici (consistenti in strutture, mezzi e risorse umane) in grado di assicurare ai sodali datisi alla fuga gli aiuti necessari al mantenimento del loro stato di clandestinità>> (cfr. ordinanza di convalida del fermo di indiziato di delitto e di contestaule applicazione della misura cautelare della custodia in carcere emessa dal Gip presso il Tribunale di Palmi in data 9.03.13, pagg. 13-14)».

Strano che i tre magistrati delle due Procure non ricordino (verosimilmente ciò è dovuto al sovrapporsi delle indagini) che, non più tardi di un mese e mezzo fa, in un’operazione condotta dai pm Michele Prestipino, Roberto Di Palma, Adriana Sciglio e dallo stesso Giovanni Musarò contro la cosca Gallico di Palmi, .emerse «l’esistenza di una “talpa” (verosimilmente, nell’Arma dei Carabinieri) in grado di accedere a notizie riservate o, comunque, di riferire informazioni utili alla pianificazione o all’adozione di iniziative volte ad eludere le investigazioni e a vanificare l’esecuzione dei provvedimenti restrittivi». Per questo rimando all’articolo su questo umile e umido blog, del 24 ottobre.

AVANTI CON I CURATORI

Dall’indagine è poi ancora emerso – e per questo nel decreto di fermo viene riportato un dialogo intercettato del 28 gennaio 2013 – che Domenico Scarfone possiede una villa di pregio ad Ariccia (Roma), dove peraltro ha condotto in visita Rocco Mazzagatti, per gli inquirenti acquistata all’asta grazie ad un curatore corrotto, al quale aveva versato la somma di 10mila euro per averlo preferito. (Ecco il dialogo intercettato: «Questa l’ho pagata all’asta…gli ho dato diecimila euro al…diecimila euro al curatore…glieli ho regalati e l’ho presa a tre e settanta… più le tasse altri trentamila euro…quattro  e dieci, quattro e venti mi è venuta sai quanto veniva qua?…Libero mercato sui seicentomila euro…però stai nel cuore, in due passi arrivi a Roma».

Insomma, i magistrati della Dda di Reggio Calabria e quello di Palmi dimostrano che aveva un canale preferenziale per l’acquisto di beni immobili agli incanti, mostrando la sua capacità delinquenziale e di infiltrazione anche in settori istituzionali («io ho sotto mano un curatore…che ha delle cose fantastiche…di cui il curatore va là facciamo l’offerte e ce li danno attraverso il tribunale delle cose che…lì si sognano, se li sognano, tu pensa che ci stanno cose da tre, quattro milioni che sul mercato…adesso non lo so…»).

Le vie della corruzione, cari lettori, sono infinite.

5 – to be continued (le precedenti puntate sono state pubblicata il 29 novembre, il 2, 3 e 4 dicembre)

r.galullo@ilsole24ore.com