Il pm antimafia Francesco Curcio descrive in un decalogo la ‘ndrangheta, circoscrive i falsi miti e fa strame del paragone con Cosa nostra

Il sostituto procuratore nazionale antimafia Francesco Curcio è uomo rigoroso e magistrato capace. In più – per come lo conosco e lo ricordo – a differenza di magistrati che oggi scoprono ciò che i loro colleghi hanno già…scoperto 25/30 anni fa spacciandolo per novità, Curcio studia e si confronta, si confronta e studia. Molto.

Dico e scrivo questo perché la sua relazione sulla ‘ndrangheta acclusa al rapporto 2012 della Procura nazionale antimafia, spedita al Parlamento in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, lo conferma. Le sue analisi sulla ‘ndrangheta sono condivisibili più di altre che vengono spacciate per “la” verità.

L’ALTRA ‘NDRANGHETA

Certo non completamente condivisibili e condivise, come dimostrano altre relazioni scritte da altri sostituti procuratori nazionali nello stesso Rapporto 2012, sul fenomeno ‘ndranghetistico fuori dai confini calabresi. Un esempio su tutti? Andatevi a leggere la parte sull’Emilia-Romagna scritta da Roberto Pennisi che di “unitarietà” della ‘ndrangheta non vuole sentirne parlare neanche a fucilate. Questo, infatti, dice la sua esperienza (era pm a Reggio quando alcuni suoi colleghi giocavano al piccolo chimico o con la cerbottana) e questo dice quanto sta scoprendo in Emilia-Romagna e nel Veneto, regione per le quali ha addirittura e provocatoriamente inventato un termine con tanto di piantine geografiche accluse in relazione: “l’altra ‘ndrangheta”.

Per la verità Pennisi – forse per garbo istituzionale, forse per diplomazia interna – nella relazione è molto più morbido di quanto fu il 17 aprile 2012 davanti alla Commissione parlamentare antimafia ma per questo rimando alla lettura dei miei post (in archivio) del 21 e 22 giugno 2012.

Ma del resto Pennisi, così come Enzo Macrì, Giuseppe Lombardo, Alberto Cisterna (l’unico per il quale, al momento, è perfettamente riuscita l’operazione, alla Schwarzkopf , “public prosecutor storm”) sono nemici del pensiero unico che corre sull’asse Catanzaro-Reggio-Calabria-Roma-Milano-Torino e dunque, per il momento, perdenti in natura (ma non in fatto e diritto).

Le analisi di Curcio, comunque, riportano a maggiore logicità e naturalezza la valenza dell’operazione Crimine/Infinito sull’asse Milano-Reggio Calabria A/R (e, di conseguenza Minotauro in Piemonte che, però, altro non è che una costola della prima).

COME COSA NOSTRA?

A fronte di clamorose analisi di giornalai (con sommo rispetto per questa categoria) improvvisatisi giornalisti, Curcio nella sua relazione spazza innanzitutto via il maggiore equivoco che – molti hanno la memoria corta, io ce l’ho lunghissima – era stato indotto o, se preferite, suggerito da alcune veline che i giornalai diventati giornalisti hanno letteralmente (volontariamente e, dunque, colpevolmente) bevuto. L’equivoco che Curcio spazza via – fatto invece proprio dai portaborse del nulla – è che la ‘ndrangheta sia diventata un’organizzazione criminale uguale a Cosa nostra.

Per carità, nella vita tutto è opinabile e dunque anche l’analisi di Curcio che io, però, condivido.

«E la prima e fondamentale suggestione introdotta – si legge nella relazione a pagina 93 – è stata quella che ha immediatamente (e surrettiziamente) istituito un erroneo parallelismo (sicuramente improponibile per la diversa storia e struttura delle due organizzazioni) fra la struttura della ‘'ndrangheta come individuata dall’indagine “Crimine” e quella, di Cosa Nostra siciliana, oramai giudiziariamente accertata dal maxi-processo in poi che, semplificando (e fatti salvi gli inevitabili momenti di guerra e contrasto interno), era “verticale”, caratterizzata da una gerarchia interna che culminava nella cd Commissione Interprovinciale con funzioni non solo di coordinamento (con particolare riguardo alla pianificazione ed attuazione delle strategie di fondo dell’intera organizzazione) e di risoluzione dei conflitti interni, ma, anche, operative laddove veniva in rilievo la necessità di prendere decisioni sulla consumazione di delitti rilevanti e strategici. E ciò a tacere del fatto che all'interno della Commissione Interprovinciale – a differenza di quanto avviene nell'organo collegiale di vertice della ''ndrangheta, il "Crimine" o "Provincia", non vi è mai stata una storica e netta prevalenza di una delle tre componenti geografiche (il mandamento ionico, quello tirrenico e quello del centro) su di un altra – aveva un rilievo sostanzialmente decisivo chi rappresentava la “Commissione Provinciale” di Palermo, storicamente dotata di un “peso” decisamente superiore rispetto a tutte le altre “Province”, per la sua maggiore forza economica e militare».

Insomma, Curcio scrive cose di buon senso, logiche ma ciò su cui non si interroga è che quelle analisi che lui definisce surrettizie, quell’erroneo parallelismo non sono farina del “sacco dei” giornalisti (intendo dire quelli degni di rientrare in questa professione) ma farina dello “scacco” ai pennivendoli che, però, in questo Paese dal “pensiero unico”, non solo tanto peso hanno nella pubblica opinione ma formano una casta che cementata a quella di certa magistratura diventa un blocco che “orienta” il pensiero e le scelte fondamentali di vita democratica.

Uno “scacco” (fortunatamente non matto) che è stato volontariamente mosso e suggerito da settori importanti della classe dirigente di questo Paese: in primis alcuni settori della magistratura.

Attenzione, questa non è una riflessione da due soldi ma è una domanda vitale: perché una parte della magistratura, della politica, dell’imprenditoria, della Chiesa e della società civile (calabrese e no) alimentano letture di questo tipo?

Curcio dovrebbe chiederselo – sono sicuro che lo ha fatto e ha anche alcune risposte – proprio perché la sua lettura sulla società civile, sulla Chiesa e sui media (che vedremo con il post che pubblicherò domani su questo blog) è di grande lucidità. Manca però – per coraggio? Non credo, quello non gli manca. Per opportunità? Può darsi – un tassello fondamentale: la critica o, meglio, l’autocritica sul ruolo di certa magistratura.

Ma andiamo avanti.

IL DECALOGO DELLA ‘NDRANGHETA

Sgombrato il tavolo dagli equivoci, Curcio disegna quel che oggi appare un profilo più congruo della ‘ndrangheta, quello che lui stesso definisce il decalogo:

1) è una organizzazione unitaria (come, tra l’altro, testimoniato anche dall’obbligo di tutte le strutture locali di destinare un contributo economico – provento delle proprie attività illecite -alla cosiddetta “mamma di San Luca”) ;

2) ha come propria cellula primigenia, la ‘ndrina composta da soggetti appartenenti alla medesima famiglia ovvero legati da vincoli di sangue;

3) ad un livello immediatamente superiore, conosce il (o la) “locale”, che opera su base territoriale (normalmente coincide con un Comune) ed è composta da almeno 50 affiliati appartenenti a più ‘ndrine. Il capo locale ha potere gerarchico assoluto su tutti i componenti della locale. E’ coadiuvato da un “Crimine” che coordina le attività delittuose e da una “Contabile” che gestisce la cassa comune ;

4) ha una struttura orizzontale. Ogni locale opera formalmente in posizione paritaria rispetto a tutte le altre ed ha il compito di controllare capillarmente il territorio di propria competenza, si che si trovi in Provincia di Reggio Calabria che altrove;

5) è caratterizzata, all’interno della locale (quando questa è caratterizzata dalla presenza di almeno sette componenti che hanno raggiunto un grado ‘ndranghetistico assai elevato, quello di “Santa”) dallo schema della cd. doppia compartimentazione: la Società Minore e la Società Maggiore. Sebbene non in tutte per tutti le locali si riesce a costituire la Società Maggiore (che è ovviamente sovraordinata alla “Minore”), allorquando, tuttavia, è presente quest’ultima struttura organizzativa, il medesima locale viene definito, anche, con il termine Società, proprio per indicare la differenza con il locale formato solo dalla minore;

6) è suddivisa in tre mandamenti (tirrenico, Reggio centro e jonico) tutti collocati nella provincia di Reggio Calabria, all’interno di ciascuno dei quali operano le suddette locali;

7) conosce, oltre ai suddetti “mandamenti”, al di fuori della Provincia reggina, strutture del tutto analoghe di tipo “intermedio” nei seguenti territori ove è particolarmente radicata: Lombardia, Liguria, Australia e Canada. In Lombardia, è stata accertata l'esistenza di una struttura denominata Lombardia, in Liguria una struttura simile è denominata “camera di controllo”, in Canada vi è prova dell’esistenza di un Crimine canadese e, infine, in Australia vi è un Crimine australiano, entità, tutte, che sono una sorta di mandamento, che hanno una funzione sia di coordinamento “interno” che di interlocuzione e d’interfaccia con la "casa madre" e cioè, in concreto, con la "Provincia", detta “Crimine di Polsi” organo di vertice. E mentre tutte le strutture intermedie sopra citate si sono contraddistinte per una accettazione sostanzialmente pacifica e stabile nel tempo quanto a modalità ed intensità della sovraordinazione del Crimine di Polsi, il grado di subordinazione (dunque il quantum, non l’an) della "Lombardia" nei confronti della "Provincia" reggina e, più in generale, dalle famiglie calabresi (con cui molti 'ndranghetisti lombardi hanno continuato ad avere stretti legami) è materia fluida ed altalenante nel tempo, variabile a seconda delle leaderships che si sono susseguite;

8) è coordinata, a livello nazionale ed internazionale, da un organismo collegiale espressione di vertice dei soli mandamenti della Provincia di Reggio Calabria – denominato la “Provincia”;

9) attribuisce il ruolo di primus inter pares. fra i componenti della “Provincia”, al Capo Provincia o Capo Crimine che viene democraticamente eletto (anche se è ovvio che esistano elettori più influenti di altri) dai componenti della stessa “Provincia”;

10) pur non essendo caratterizzata da rigidi rapporti gerarchici fra le diverse strutture indicate, la Provincia (o “Crimine di Polsi) di fatto è sovraordinata alle locali (anche quelle ubicate fuori dalla Provincia di Reggio Calabria) ai mandamenti e alle altre strutture intermedie ed ha il compito non solo di coordinarne l’attività, ma di dirimerne le controversie, custodire le regole e applicare le relative sanzioni in caso di loro trasgressione. Soprattutto, per le posizioni di maggiore potere, decide, ha l'ultima parola sul chi comanda su chi . Si tratta, evidentemente, di una funzione fondamentale, primaria, in un’organizzazione criminale che, alla fine, pone al vertice del proprio sistema di valori (ampiamente condiviso dalla maggioranza dei suoi appartenenti) proprio l’esercizio del potere .

«Parliamo, dunque, di un sistema, di un organismo, che, seppure diverso da Cosa Nostra siciliana, nondimeno (e in ciò vi è una straordinaria differenza con la Camorra) è unitario – scrive Curcio a pagina 94 – essendo raccordato da un insieme di regole cogenti e condivise, da strutture unitarie in cui gli associati si riconoscono (a cui peraltro, è destinato un contributo economico di tutte le strutture “orizzontali” del sodalizio), dalla esistenza di organi deputati: ad attribuire "cariche" (cosiddette doti) che in concreto determinano la quantità di potere di cui dispone ciascun affiliato (e, fra questi, in particolare, vi è un organo comune a tutti gli appartenenti alla 'ndrangheta – la Provincia o Crimine – deputato all'attribuzione delle cariche più importanti); a risolvere controversie; a produrre o interpretare regole; ad applicarle con decisioni cui gli associati prestano ossequio.

Ed il tutto è reso coeso da valori, da tradizioni e da un “sentire” comune, fattori tutti che costituiscono il collante dell’associazione e affondano le loro radici in anni e anni di storia criminale che, sedimentandosi nel tempo, giorno dopo giorno, sopraffazione dopo sopraffazione, hanno segnato, ma sarebbe meglio dire modellato, non solo la mentalità degli associati, ma anche quella di un ampissimo contesto sociale in cui la 'ndrangheta per decenni, si è strutturata, si è mossa, ha dominato».

E giù, in conclusione, con un parallelismo descritto a pagina 95: «In conclusione, e a ben vedere, enfatizzare, come è stato fatto, l’argomento della autonomia delle diverse “società”, “locali” e “mandamenti” per dedurne l’infondatezza del descritto modello strutturale (sicuramente peculiare e tipico) escludendo che possa integrare (come, invece, integra) quello di un unitario sodalizio criminale inquadrabile nella fattispecie di cui all’art 416 bis cp, sul piano della logica equivarrebbe a dubitare del fatto che una Repubblica Federale, ad esempio la Repubblica Federale Tedesca, solo perché i diversi Lander sono dotati di spiccata autonomia, non sia una uno Stato Unitario».

Una visione, ripeto, più logica anche se, rimanendo al paragone con la Germania federale, così come la Baviera non pesa economicamente e finanziariamente quanto le regioni dell’ex Germania Est, così Archi non pesa certo quanto il Vibonese. Quindi le cosche sono tutte uguali ma qualcuna è più…uguale delle altre!

Una visione logica anche perché – e questo Curcio lo sa – c
oincide con la teoria degli universi ‘ndranghetistici con inevitabili punti di contatto, che però non esiste da oggi ma…dal finire degli anni Sessanta.

IL RUOLO DI OPPEDISANO

E il ruolo di Oppedisano qual è (quale era)? Qual era il ruolo dell’ottuagenario venditore di ortaggi nella Piana di Gioia Tauro del quale fior di magistrati (da ultimo, in ordine di tempo, Enzo Lombardo a capo della Procura dei Catanzaro) non avevano mai sentito parlare in vita loro e del quale collaboratori di giustizia ignoravano l’esistenza?

Qual era il ruolo di colui il quale una pubblicistica affrettata (si veda sopra per le considerazioni) aveva fatto diventare il “capo dei capi”, una sorta di Totò Riina calabrese, più temibile di Binnu Provenzano?

Qual era il ruolo di colui il quale – intercettato anni e anni fa – dal Goa per 4 giorni fu abbandonato al proprio destino in quanto considerato uno che, beh, contava quanto il due di spade quando a briscola regna coppe?

Beh la lettura di Curcio è molto asettica ma puntuale. Io continuo ad avere, come sapete, un giudizio parzialmente diverso (ma viva la dialettica Santo Iddio!) ma non posso negare che la lettura di Curcio è in buona parte condivisibile.

«Delineata nei termini riportati nella relazione generale la complessiva struttura della 'ndrangheta, intesa come organizzazione unitaria – scrive infatti a pagina 685, laddove entra puntualmente nell’analisi del distretto di Reggio Calabria – deve, tuttavia, ribadirsi che, all’interno dell’organismo criminale, mantengono importanza centrale le strutture-base dell’organizzazione, vale a dire le “locali” (e le relative famiglie che le compongono) ognuna delle quali, nei limiti già sopra indicati, rimane, per così dire, padrona a casa propria. La vita criminale degli ‘ndranghetisti nasce e si sviluppa nella “locale”. E’ per gli interessi economici e per il prestigio della locale, che ogni singolo affiliato commette reati. Ed il capo della “locale” ha potere assoluto sui suoi sottoposti che gli devono incondizionata obbedienza. Insomma la “cellula” fondamentale della ‘ndrangheta rimane la locale.

Non di meno, deve ancora essere sottolineato, questa “orizzontalità” della struttura associativa, questa “pari dignità” delle diversi locali, come insegnano le indagini svolte, deve essere intesa con la necessaria duttilità ed intelligenza. Ovvio che ci sia una differente capacità d’influenza, una diversa forza contrattuale, un diverso peso, che distingue fra loro le varie famiglie di 'ndrangheta. In questo contesto non può non farsi riferimento, ancora una volta, alle risultanze investigative. Che parlano chiaro».

E qui compare il primo, condivisibile, passaggio su don Mico Oppedisano. «Se è indubitabile, sulla “Jonica”, ad esempio, il particolare peso delle famiglie Pelle di San Luca e Commisso di Siderno – scrive Curcionon può poi sottacersi che, come emerge dalla indagine “All Inside”, nella nomina del Capo Crimine Oppedisano Domenico, si misurava tutta la forza contrattuale della famiglia Pesce di Rosarno che, a dispetto delle resistenza dei Pelle e delle altre importanti famiglie della Jonica, riusciva a spostare dalla “Jonica”, appunto, alla “Tirrenica” la più alta carica della 'ndrangheta, facendo valere tutto il peso economico e militare della sua cosca (che, almeno fino al 2010, contava oltre 250 affiliati) ».

Nella parte generale sulla ‘ndrangheta, alla quale appunto Curcio rimanda, lo stesso sostituto procuratore antimafia aveva scritto: «Peraltro – al di là di questo specifico e puntuale argomento – ulteriori elementi colti dall’indagine “Crimine” dimostrano l’inconsistenza della critica di chi ha inteso dimostrare l’erroneità della tesi dell’unitarietà della ‘ndrangheta sulla base dalla pretesa incapacità di quell’indagine di ricostruire, anche, l’organigramma e la struttura del mandamento di Reggio Centro.

Ed infatti, proprio partendo dal punto di osservazione del capo del Crimine, e cioè intercettando Domenico Oppedisano – che non va dimenticato, era espressione del Mandamento Tirrenico – si riusciva a risalire a tre importanti esponenti del reggino con cariche elevatissime nella gerarchia ndranghetista (Praticò Sebastiano, Gattuso Francesco e Antonino Latella, che addirittura viene nominato Capo Società di Polsi, che è carica di livello “provinciale”) che, non a caso, si relazionavano con Oppedisano proprio per dirimere delicate questioni relative alla struttura ed al funzionamento del Mandamento reggino.

Soprattutto, ed è quello che in questa sede rileva, da quelle indagini e, soprattutto, dalla stessa motivazione della recente sentenza del Gup di Reggio Calabria in sede di abbreviato, si è ricavato, senza dubbio alcuno, l’inserimento, a pieno titolo, del mandamento reggino, nella cosiddetta Provincia e, dunque, nella 'ndrangheta intesa come organismo unitario».

Il dato veniva definitivamente scolpito, afferma Curcio, in alcune nuove trascrizioni depositate a maggio 2012 nel dibattimento All Inside. In particolare segnala un passaggio davvero rilevante della conversazione captata il 31 gennaio 2011 alle ore 14,30 all’interno dell’appezzamento di proprietà di Domenico Oppedisano nel corso della quale Oppedisano stesso, nel parlare di questioni reggine a tre suoi interlocutori affermava: «...omissis… sono venuto a Reggio perché allora mi ha invitato Nicola per quella discussione …… abbiamo ristabilito soltanto (incomprensibile) con tutti i responsabili di Reggio per ristabilire il (incomprensibile) che si sono prese le cariche che hanno le cariche a Reggio (incomprensibile) che tengono nascosta la carica però che si prendono quelle dei paesi non se le devono prendere dei paesi perché se tu vuoi la responsabilità tu devi essere presente (incomprensibile) perché 150 (incomprensibile) responsabili a Reggio….omissis».

Insomma, si è avuta la prova, oramai in sede dibattimentale, conclude Curcio, «dell’intervento del vecchio capo 'ndrangheta della “tirrenica” anche nelle nomine dei “responsabili” della città di Reggio Calabria e con esso della esistenza di una struttura unitaria di tutta la 'ndrangheta».

Ecco, concludendo, ricondotto a questo ruolo (come fior di pm antimafia e analisti dicono da anni, derisi da quella parte della magistratura che ha “inventato” e “scoperto” dall’oggi al domani la ‘ndrangheta e che per questo vuole spiegarla, spesso con il crisma dell’umiliazione, al mondo intero), il profilo di don Mico Oppedisano convince. Una sorta di importante “vecchio saggio”, di importante “custode delle regole” (fondamentale in una struttura militare e parareligiosa come la ‘ndrangheta) che lo stesso pm Nicola Gratteri, sostenendo l’accusa nel processo, aveva delineato e che l’estensore che ha preceduto Curcio, il sostituto Carlo Caponcello, aveva cominciato a tratteggiare nella relazione 2011 della Dna.

Certo, restano sempre due domande di fondo che si collegano intrinsecamente l’una all’altra: 1) ci si può fermare a questo livello nelle analisi o non è il caso di spingere l’acceleratore verso la “cupola ‘ndranghetista” che è cosa altra e diversa dalla ‘ndrangheta? All’analisi cioè di quel collante mafioso fatto di elite della ‘ndrangheta infiltrata nella politica e nelle Istituzioni (Condello, Tegano, De Stefano e Libri in testa che di don Mico Oppedisano si preoccupano quanto Messi può temere la marcatura di Piris della Roma) pezzi deviati dello Stato, della Chiesa, delle professioni e della massoneria che ormai cavalcano la vita sociale ed economica di Reggio e non solo? 2) è casuale che l’attenzione dell’opinione pubblica sia indirizzata verso la ‘ndrangheta violenta e tradizionale, che si bea di riti e santini, di sangue e violenza, di cariche e gradi e non verso quella che vive di grembiuli e compassi, di poltrone politiche e statali, di connivenze e corruzione, di poteri e spartizioni, di medici e magistrati, di onorevoli e consiglieri, di giornalisti e imprenditori, di finanzieri e finanziatori?

Le due domande debbono camminare quo-ti-dia-na-men-te su due gambe: 1) quella del giornalismo che ha il compito di scrivere con la schiena dritta e non guardare in faccia a nessuno per disvelare all’opinione pubblica ciò che la “cupola ‘ndranghetista” vuole che resti nelle segrete stanze del potere deviato (e domani, sul punto, vedremo le sane critiche di Curcio ai media); 2) quella della magistratura, che ha il compito di camminare con la stessa schiena dritta e non guardare in faccia a nessuno perché un conto è piazzare le cimici a casa di Pelle, un conto è interrompere l’ascolto dopo circa 50 giorni dal quel piazzamento, proprio quando gli investigatori (alcuni) gli inquirenti (alcuni) stavano cominciando a stropicciarsi le mani per il via vai, fisico e virtuale, di politici, professionisti, imprenditori e pezzi deviati dello stato a San Luca.

In fin dei conti né ai giornalisti né ai magistrati la professione è stata prescritta dal medico: o la si fa per il bene dell’opinione pubblica e la si amministra bene in nome del popolo italiano, oppure è meglio cambiare mestiere perché i danni, per la società, sono irreparabili come una chiazza di petrolio nella vasca da bagno.

1 – to be continued

r.galullo@ilsole24ore.com

  • bartolo |

    caro galullo,
    sono doverose le scuse al dottore francesco curcio.
    ho fatto confusione con salvatore curcio, collega del primo e sostituto procuratore generale a catanzaro.

  • Andrea |

    Scusi caro Galullo,
    ma mi sfuggono cose importanti.
    Lei fa riferimento a una differenza di vedute tra quella di Curcio, illustrata qui, e il “pensiero unico che corre sull’asse Catanzaro-Reggio-Calabria-Roma-Milano-Torino”.
    Però a un lettore – per quanto assiduo di queste pagine – sfuggono i termini. Potrebbe per favore sintetizzare la contrapposizione chiarendo cosa intende per “pensiero unico” e in cosa sia sbagliato?
    La ringrazio,
    Un collega

  • bartolo |

    caro galullo,
    per l’accertamento della verità sulla ndrangheta non bisogna trascurare nulla.
    a partire, solo pochi anni fa, della perquisizione presso la procura di catanzaro da parte della procura di salerno competente per legge.
    in quel caso, prima che i carabinieri abusivamente allertati dal procuratore generale di catanzaro interrompessero le legittime attività di ricerca delle prove contro i colleghi, pare che il pm curcio sia rimasto i mutande, la polizia giudiziaria, hanno riportato le cronache di allora, in presenza del pm procedente, lo aveva fatto spogliare, persino e addirittura davanti ai figli minori.
    che, piuttosto che attaccare la stampa, la dna spiegasse agli italiani i retroscena e gli avantiscena di quel buio momento per le istituzioni, partito tutto dal cosiddetto caso reggio: giudici e parlamentari di questa città indagati e poi prosciolti.
    la ndrangheta delle famiglie, e delle cosche, e dei mandamenti non è altro che una mafia di paralitici-disadattati-cialtroni; e le relazioni annuali della dna, come quelle della dia devono relazionare proprio sui pericoli della vera mafia: quella, appunto, che ci ha portati nel fondo del baratro. e che, imperterrita, continua ancora a raschiare.

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